mercoledì 8 febbraio 2017

TRA PROFEZIE E STRAVAGANTI DOTTRINE DEGLI EMPI


A volte non lo fai apposta. A poca distanza di tempo, può capitarti di leggere libri diversi che sembrano l'uno lo sviluppo e l'approfondimento dell'altro, come se si scambiassero l'indirizzo e ti dicessero dove puoi trovarli insieme a dialogare.
Prendi “Il tramonto della rivoluzione” scritto per “Il Mulino” nel 2015 dal prof. Paolo Prodi, scomparso a dicembre. Il prestigioso storico e docente alle Università di Trento, Bologna e Roma, si arrovella ad interpretare lo scacco subito dalla generazione più giovane che “non intravede un futuro migliore della generazione che l'ha preceduta”.
E scopre che essa risponde ai clamorosi fallimenti della modernità cancellando “il passato perchè non vede il futuro”. Questo di tanta speme oggi ci resta, vien da dire. “E' venuta meno la coscienza di una possibile rivoluzione” non solo perchè ci siamo congedati dall'attesa dell'ora X nella versione “laica” della presa del Palazzo d'Inverno o nella versione “religiosa” della palingenetica rigenerazione evangelica (nonostante permanga grande popolarità per madonne, maghi e oroscopi). E' avvenuto un più profondo trauma narcotizzante: appare definitivamente liquidato “un progetto di futuro come cammino dell'umanità verso la salvezza” (p.103).
E pensare che la lunga marcia della modernità era cominciata per l'uomo europeo “nella separazione e nella dialettica fra potere religioso e potere secolare”. Ma questa rottura risale alla Rivoluzione Francese? O alla Riforma protestante? O alla furibonda contesa dell'XI secolo fra Gregorio VII ed Enrico IV per controllare un potere concepito come universale e unitario perchè l'uno e l'altro ne rivendicavano una legittimazione e un'ascendenza religiosa?
No. Nel suo “Occidente senza utopie” scritto con il filosofo veneziano Massimo Cacciari nel 2016, Paolo Prodi risale ancora più indietro, e si ferma quando scopre nel racconto biblico che Jahvè stabilisce con il suo popolo un'alleanza che presuppone per due distinti soggetti contraenti un impegno da mantenere. Presto arriva un accidente: quando la Chiesa guida, governa e si istituzionalizza compaiono i profeti. Sono spesso inascoltati non perchè vedono il futuro in anticipo, ma perchè non chiedono a nessuno – e tanto meno ai poteri ecclesiastici – il permesso di contestare in permanenza le ingiustizie del mondo dovunque si manifestino. I profeti non temono di disobbedire al potere e perciò fanno compiere all'umanità i primi passi sulla strada tortuosa della laicità.
Nel suo affascinante viaggio attraverso le parole dei Papi, anche il prof. Alberto Barbero chiama in causa Gregorio VII e lo fa per spiegare come i poteri della Chiesa si siano indeboliti nella loro secolare gara per l'autonomia o per l'egemonia con Stati e imperatori. Si comincia con Enrico IV che va a Canossa per farsi perdonare la sua insubordinazione. Magari medita di vendicarsi alla prima occasione, ma preferisce la penitenza ad uno scontro svantaggioso in quel frangente. Un altro Gregorio chiamerà “bestia” l'imperatore Federico II e lo accuserà di ignorare “modestia e pudore”, di “mentire senza arrossire”. Poi per il Pontefice venne il momento di ingoiare rospi. Con la pace di Westfalia del 1648, finì un secolo di sanguinosissime guerre di religione, ma i sovrani cattolici dovettero riconoscere la libertà di culto agli eretici di mezza Europa. Nel 1870 Pio IX dovette ingoiare l'affronto di Porta Pia e di Roma capitale: mise nello stesso sacco da gettare liberalismo, democrazia e socialismo, ma si limitò a confessare di “non poter trattenere le lacrime” di fronte al successo delle “depravate dottrine degli empi”. Erano finiti i tempi in cui il linguaggio dei Papi era quello dell'invettiva.
Con tutto che la Chiesa rivendica nel tempo il carattere universale e inossidabile del suo magistero, i Papi del XX secolo non attinsero al medesimo lessico per fare i conti con Hitler e Mussolini. Eugenio Pacelli, il segretario di Stato non ancora Pio XII, misurava le parole con meticolosa prudenza e fece sparire le carte impegnative in cui il suo predecessore (Pio XI) avrebbe condannato la “follia omicida e suicida” del nazismo e del fascismo in ascesa minacciosa (p.82). Come sarebbe andata la storia del mondo se, ritornato al centro dell'attesa universale, il Papa non avesse ingoiato il rospo e si fosse invece ribellato alla derisione del suo ruolo che i totalitarismi preparavano? Se lo chiedeva Don Primo Mazzolari nel 1941, ma solo Papa Roncalli pubblicò qualche passo e solo in anni recenti è stata resa nota l'edizione integrale di quell'intervento.
Con Papa Francesco tutto sembra cambiato. Le sue parole appartengono ad un repertorio famigliare e amichevole, ma inusualmente secco e combattivo, come pervaso dalla convinzione che si può uscire da condizioni di minoranza solo abbandonando le troppe ipocrisie e i troppo farmaceutici dosaggi della diplomazia. E poiché sa di aver a che fare con rocciosi poteri e diffuse pigrizie, questo Papa non esita a chiedere di “fare casino in Diocesi”. Ma dov'è questo casino? All'invito ad uscire dai suoi confini, la Chiesa ha risposto con tanti applausi e tanta ammirazione. Ma, una volta uscita di casa, si è fermata a chiacchierare sul pianerottolo.
Mario Dellacqua

PAOLO PRODI, Il tramonto della rivoluzione, Il Mulino, 2015, pag. 119, euro 11.
PAOLO PRODI-MASSIMO CACCIARI, Occidente senza utopie, Il Mulino, 2016, pag. 141, euro 14.
ALBERTO BARBERO, Le parole del papa. Da Gregorio VII a Francesco, Laterza, pag. 114, euro 16.


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