lunedì 20 febbraio 2017

IL PROBLEMA C'E', MA E' GIA' STATO RISOLTO

Foto di Claudio BONIFAZIO
Foto di Claudio BONIFAZIO
In una comunità locale come la nostra, la conflittualità sociale che può alimentare la dialettica politica è bassa perchè il ceto medio si è sin qui dimostrato capace di assorbire i ripetuti colpi che la crisi economica ha inflitto a redditi, sicurezze, prospettive. Il ceto medio (un frastagliato arcipelago sociale nato dalla diffusione negli anni sessanta e settanta delle famiglie di operai, artigiani e commercianti con doppio stipendio, casa in proprietà, figli a scuola fino all'Università, vacanze e automobile) ha visto progressivamente erodersi - in qualche caso sgretolarsi - i suoi redditi.
Ma grazie ai risparmi accumulati, alla casa in proprietà, alla pensione, il ceto medio è riuscito a metabolizzare, mascherare o amministrare l'impatto derivante dalla caduta verticale dell'occupazione giovanile combinata con la desertificazione degli stabilimenti Fiat e Indesit, pur attutita e diluita nel tempo dall'intervento della cassa integrazione, degli assegni di mobilità, dei lavori socialmente utili. Questi ultimi, in particolare, hanno salvaguardato il reddito e accompagnato il rientro a casa della manodopera femminile anche più di dieci anni dopo l'espulsione dal ciclo produttivo.
I fenomeni dell'impoverimento oggi colpiscono chi ha perso il lavoro e non riesce più a pagare l'affitto che prima costituiva in qualche caso un reddito aggiuntivo per segmenti del ceto medio sopra descritto. Tali fenomeni dell'impoverimento sono nascosti o isolati. Li descrive bene la recente intervista alla Caritas del “Mondo di None”. In qualche caso sono sconosciuti. Raramente emergono in superficie e quasi mai sono percepiti come problema collettivo. Finora non si sono tradotti in manifestazioni clamorose o destabilizzanti. Sembrano protetti da comportamenti remissivi, tutelati dalla vergogna o addirittura dall'introiezione di sensi di colpa. Sono ripiegati nella discrezione e nell'attesa dignitosa di interventi di assistenza delle istituzioni o del volontariato. Non si sa bene quanti siano. Sono sempre troppi, ma non costituiscono una minaccia per la serenità della coesione sociale. Il loro dramma si consuma nella disperazione privata e non valica i confini della compassionevole commiserazione pubblica. Chi non conosce esempi ravvicinati di separazioni violente, dispersione scolastica, tossicodipendenza, microcriminalità?
In questo contesto, il voto non esprime un desiderio di cambiamento. Quel cambiamento è una fatica difficile da definire prima ancora che da attuare. Si desidera essere rappresentati nelle istituzioni da chi ci assomiglia di più nella prevalente aspirazione ad una vita democratica tranquilla, ad una buona amministrazione con basso tasso di litigiosità o conflittualità, onesta, e soprattutto rassicurante, cioè senza scosse all'equilibrio del nostro lessico famigliare. Naturalmente, in forma più o meno disciplinata, ogni tanto emerge il desiderio di un “vago avvenir che in mente avevi” e affiora l'illusione (apparentemente innocua) che l'almanacco nuovo porti la vita bella che non si conosce. Quella passata non la puoi rincorrere anche se hai un po' di nostalgia (stavamo meglio quando stavamo peggio). Quella presente non la vuoi vedere ulteriormente minacciata nelle sue superstiti sicurezze dagli immigrati, dalle alluvioni, dai furti nelle case, dalle deiezioni canine, dalle buche nelle strade, dalle multe dei vigili. Meglio protestare ogni tanto contro il politico che “non rende poi quel che promette allor”. (Sto ribazzicando Leopardi). Tutto in attesa di rientrare nei ranghi, di “ricomporsi del tutto”, dopo aver preso “con l'immaginazione una boccata d'aria nel mondo” (qui ho rapinato Pirandello).
Se il quadro descritto è vicino al vero, ne consegue la necessità di accettare che pensieri, aspirazioni, interessi e comportamenti di un blocco sociale così approssimativamente configurato, siano rappresentati dagli attuali assetti sedicenti solidali e progrediti. Ne consegue anche che Progetto comune può ritenersi soddisfatto del ruolo di stimolo, di proposta, di controllo e di sollecitazione svolto dalla sua presenza democratica. Essa potrà arricchirsi, qualificarsi, conquistare credibilità e consensi se con la sua azione saprà contendere alla palude della quiete pubblica rappresentanze crescenti delle aree sociali subalterne, di giovani ribelli, di cittadini consapevoli, di insegnanti anche socialmente attivi, di pensionati strappati al pettegolezzo e via rianimando umanità.
Il dialogo con le aree sociali dominate dalla passività e reduci dal decennio delle coccole non va affrontato con le invettive e le scomuniche. Va affrontato con la costanza dell'impegno dedicato a presentare proposte, a sollecitare la ricerca di soluzioni, a coinvolgere i deboli e i capaci nell'azione diretta e orgogliosa dell'associazionismo politico, nella collaborazione e nel conflitto, a seconda dei casi. Trasformare il passivo in attivo è il nostro sereno assillo. E' il medesimo problema che si era posto Giacomo Ulivi, il giovane partigiano modenese fucilato a 19 anni nel novembre del '44.
Ecco per esempio, quanti di noi sperano nella fine di questi casi tremendi, per iniziare una laboriosa e quieta vita, dedicata alla famiglia e al lavoro? Benissimo: è un sentimento generale, diffuso e soddisfacente. Ma, credo, lavorare non basterà; e nel desiderio invincibile di "quiete", anche se laboriosa è il segno dell'errore. Perché in questo bisogno di quiete è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica. È il tremendo, il più terribile, credetemi, risultato di un'opera di diseducazione ventennale, di diseducazione o di educazione negativa, che martellando per vent'anni da ogni lato è riuscita ad inchiodare in molti di noi dei pregiudizi. Fondamentale quello della 'sporcizia' della politica...” eccetera. A noi tocca un'opera di autorieducazione collettiva. Ventennale. Ventennale a chi?

Mario Dellacqua

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