lunedì 29 giugno 2015

DAL PARTITO AL GRATTA E VINCI



Ma nel pomeriggio di sabato 27 giugno, chi c'era all'angolo non ottuso di via Roma 11 a None? I lavoratori della Festainrosso decidevano di celebrare il traguardo di 25 anni di solidarietà proponendo un'insolita anteprima, inventata apposta per incontrare Giuseppe Fiorentino, il fondatore dei rifondaroli nonesi, e per consegnargli una targa-ricordo in onore dei suoi 40 anni di impegno politico.
Molti i volti amici presenti ad un piccolo evento dal grande significato. C'era il Sindaco Enzo Garrone con il suo vice Roberto Bori. C'era il capogruppo della minoranza Giovanni Garabello. E c'era il Direttore del mensile locale “Il Mondo di None”, Gregorio Codispoti.
Tra i vecchi militanti spiccava la presenza di Giorgio Melega e del prof. Aldo Sandullo, negli anni Ottanta entrambi assessori e animatori della sezione socialista. Non poteva mancare Pasquale Marino, rappresentante sindacale alla Streglio e protagonista con Fiorentino dei primi passi nell'avventura rifondarola. Già così numerosa, la famiglia Fiorentino si allargava in un abbraccio amichevole e fraterno, a dispetto sorridente degli anni e degli acciacchi.
Sulla targa consegnata dal Sindaco campeggiava questa scritta: “A Giuseppe Fiorentino per i suoi 40 anni di impegno politico a None. Amici e compagni della Festainrosso”. Insieme alla targa, l'omaggio di una radiolina tascabile e di una fotografia che ritrae, a cura di Tullio Paganin, la vecchia sezione comunista di via Stazione intitolata ad Antonio Gramsci.
L'incontro è stato utile per riflettere sulla militanza politica, sui suoi valori, sulla sua attualità insidiata, invocata o derisa come una fedeltà obsoleta, sulla sua vitale necessità e sulla sua drammatica crisi, sulla sua riduzione a spettacolo televisivo in cui fare il tifo illudendosi di partecipare all'accattivante tenzone di insulti, simpatie e volgarità con un “mi piace” nel cortile di face book. E nessuno ci poteva aiutare in questo percorso di luci e di ombre meglio del prof. Franco Milanesi che nel suo volume “Militanti” ha esplorato con un occhio europeo e trasversale il fenomeno novecentesco della grande politicizzazione italiana: fino al 93 per cento di affluenza alle urne, Partito Comunista a un milione e 800mila iscritti, Democrazia Cristiana attorno al milione: la storia della democrazia italiana è storia della Repubblica dei partiti. Un retroterra di sezioni, circoli ricreativi, cooperative, amministratori comunali, pubblicazioni locali, leghe sindacali attivava il reticolo della partecipazione. Favoriva l'istruzione popolare. Anche se non li chiamava così. Elaborava piccoli piani regolatori sociali che sapevano misurare la distanza fra i bisogni rilevati e le possibilità di soddisfarli mediante il conflitto, la collaborazione, gli accordi con le imprese e i provvedimenti legislativi in parlamento, nelle Regioni e nei Comuni. Inseriva nella vita democratica leve di giovani ribelli di tutti gli ambienti sociali e tanta parte delle classi subalterne prima estranee al funzionamento dello Stato.
“Era una diversità antropologica – ha detto Milanesi – fondata su una diversa visione del mondo e sull'idea irrinunciabile che esso potesse cambiare solo contando sul protagonismo e sull'emancipazione dal basso delle classi subalterne”. Ah, ah. Non un mondo da idealizzare con le oggi consolatorie immagini pasoliniane del Pci come “paese nel paese” e della diversità comunista come superiorità etica e genetica. Non un mondo di cui ricordare con struggente nostalgia il leader perduto e atteso come una specie di Ulisse che arriverà un giorno dal mare a salvare la sua famiglia dalle grinfie dei Proci. In quel mondo infatti potevano serpeggiare interpretazioni settarie, intolleranti e totalizzanti dell'impegno politico. In quel mondo trovarono il modo di insediarsi le prime manifestazioni di narcisismo che approdavano alla pratica della clientela e della corruzione passando attraverso le ambizioni di carriera e le mediocri peregrinazioni trasformistiche da uno schieramento all'altro. Tutto cominciava con il leader locale che accentrava potere per lamentarsi di dover fare troppe cose da solo. Tutto si sviluppava proprio mentre “la base” delegava decisioni e elaborazioni al leader, salvo poi scoprire di contare troppo poco al momento giusto o solo quando si tratta di applaudire la propria consorteria. Bell'affare abbiamo fatto. La dilapidazione di quel patrimonio immenso di potenziale creatività sociale ha distrutto l'unica medicina in grado di curare la micidiale commistione fra affari e politica.
Il bambino non vedeva l'acqua sporca e tendeva le mani non innocenti verso chi sarebbe arrivato a liberarlo dal lordume rovesciandogli la vasca in testa.
“Ci vuole il braccio e la mente”, ha detto Fiorentino in una breve e commossa rivisitazione della sua esperienza. Don Milani notava che chi sa volare non deve tagliarsi le ali per solidarietà con i pedoni, ma deve permettere a tutti di imparare a volare verso la scoperta della propria autonomia e dignità.  E polemizzando con chi polemizzava con i suoi articoli “lunghi” e “difficili”, Gramsci scriveva che il primo grande passo verso l'emancipazione si fa trattando da uomo libero e consapevole chi è sempre stato trattato come un eterno bambino bisognoso di essere guidato in tutto. E aggiungeva che non si vede per quale ragione un operaio non debba poter apprezzare Leopardi o Beethoven, mentre sarebbero adatte a lui solo gli stornelli di Piedigrotta. E a Walter Mandelli che non voleva accettare le 150 ore di diritto allo studio perchè gli operai suonassero il clavicembalo a spese delle aziende metalmeccaniche, il leader della FLM Franco Bentivogli rispose con un disarmante “Perchè no?”. Ma boia falso, tutta la storia del socialismo italiano è sperimentazione di impasti tra falci, libri, martelli e soli, cioè tra braccio e mente, tra pensiero e azione, tra lavoro manuale e intellettuale, cioè tra bisogno di aiutarsi e voglia di stare meglio insieme oggi. E' una continua ricerca sempre in bilico per legare i diritti ai doveri, per vincolare il progresso all'uguaglianza, per ancorare il lavoro alla libertà.
Ieri Riccardo Lombardi ci parlava di una società “diversamente ricca” e proponeva la “programmazione democratica”, un ossimoro che con altre parole induce il Papa Francesco a parlare con grazia straordinariamente incisiva della necessità di combattere lo scioglimento dei ghiacciai e i mutamenti climatici anche acquistando e cucinando solo ciò che ragionevolmente dovremo mangiare.
“Troppe volte si mette l'avere e l'apparire davanti all'essere” ha osservato il Sindaco Garrone. Sempre Gramsci non condannava l'ambizione. Anzi addirittura la incoraggiava, ma distingueva l'ambizione che porta a fare terra bruciata attorno a sé e l'ambizione che porta a elevarsi un intero ceto delle classi subalterne perchè lo sa fare capace di attenzione, di azione e di cittadinanza consapevole.
Oggi non è un bel vedere che tra i disoccupati il gratta e vinci riscuota più successo della petizione di Libera per il reddito di cittadinanza contro la miseria ladra che toglie dignità e porta dipendenza clientelare.
Tuttavia, non si vede una via d'uscita per la nostra democrazia malata se non ricompariranno in forma aggiornata gli anticorpi di una partecipazione popolare, di una solidarietà sociale, di un impegno collettivo capace di sprigionare forme di controllo e di governo delle decisioni di imprese e istituzioni.
La politica va rivalutata e riconquistata, ha detto Milanesi: essa è la civilizzazione della lotta per il potere, è l'arte che trasforma la guerra contro il nemico in conflitto sociale e programmatico. E' la gara di opposte visioni del mondo che promuovono il progresso di tutti perchè hanno reciprocamente maturato il rifiuto che la propria vittoria coincida con l'annientamento dell'avversario e con la distruzione del bene comune.

Mario Dellacqua

1 commento:

  1. c'era tizio, caio e tanta voglia di crederci ancora. Ferruccio

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