giovedì 16 aprile 2015

LO STATO DELLA SINISTRA



Bruxelles, Pechino, Shangai, California, Messico, Brasile, Indonesia: abituato a vivere viaggiando tra i continenti nella privilegiata condizione del docente universitario e del giornalista (corrispondente di “Repubblica” o vicedirettore del “Sole 24 Ore”), per Federico Rampini è naturale osservare i tormenti della crisi italiana con gli occhi cosmopoliti del nomade raffinato e perennemente volto a cogliere dovunque nel mondo periferie e centralità da esplorare, costanze illuminanti e divergenze inspiegabili.
Il suo sguardo sprovincializzato e addestrato agli scherzi di un continuo spaesamento, lo portano a concepire la sinistra come uno schieramento di forze sociali che sono “sulla stessa barca in tutto il mondo”. Perciò egli non teme di allineare e confrontare Berlinguer e Clinton, Lama e Obama: le sconfitte degli uni interpellano gli altri e pretendono una visione planetaria delle svolte da conquistare con il coraggio impietoso della rottura innovativa.

E la sconfitta è arrivata, in Europa e in America, quando la sinistra ha subito il fascino della destra che, con Ronald Reagan, vedeva nello Stato non la soluzione da abbracciare, ma il problema da rimuovere mediante lo smantellamento dei poteri sindacali, le privatizzazioni, lo svuotamento di ogni spesa pubblica dilapidata nel presidio della sicurezza sociale.
Ad onor del vero, i conti tornano. La stagione dei tagli, dei mutui sub prime e della nuovamente libera commistione fra banche commerciali e banche di investimento (con annesso gigantesco trasferimento di risorse dai salari alle rendite speculative e ai super stipendi milionari) si intensificò decisamente nella prima metà degli anni Novanta con la Presidenza di Bill Clinton. “E ciò – direbbe il Poeta – non fa d'onor poco argomento”.
Tuttavia, del modello americano, Rampini apprezza e importerebbe in Italia l'attaccamento popolare alla legalità, la mobilità sociale e la meritocrazia. Della medesima civiltà opulenta, però, detesta la “faccia tosta” che permette a “odiosi banchieri” di ostentare generosità umanitaria e di staccare platealmente fior di assegni a favore della ricerca anticancro, proprio mentre accumulano privilegi sproporzionati e clamorosi. L'avanzata pervasiva della finanza ha generato infatti disuguaglianze intollerabili. Piketty dice che l'un per cento più ricco ha assorbito da solo quasi il 60 per cento della crescita totale del reddito nazionale. Prima di Lui, Rampini aveva notato che “i redditi dell'1 per cento che sta in cima alla piramide sono saliti dell'11 per cento in un biennio”, mentre quelli del rimanente 99 per cento “sono scesi dello 0,4 per cento”. Si tratta di sperequazioni “non solo moralmente inique”, ma anche “pericolose” per la stessa efficienza dell'economia di mercato che “si salva solo se crea un benessere diffuso e un potere d'acquisto ben distribuito”.
Naturalmente negli Usa non mancano consumi opulenti e spettacolari: sprechi di aria condizionata, maxi freezer, Suv giganteschi, limousine da 12 posti che accompagnano a casa i ventenni sbronzi del sabato sera, aeroplani usati come autobus. Ma sono come le spese voluttuarie della Francia di Luigi XVI: nutrono gli sfarzi di un élite, ma non costituiscono “volano di una crescita perché la platea dei consumatori è troppo ristretta”.
Dove “il povero è oggetto della benevola carità dei grandi proprietari di fortune”, si è dimenticato, da Keynes a Henry Ford, che “i salari alti sono più utili della carità nell'interesse stesso della crescita capitalistica”, se si vuole allargare il mercato di sbocco a prodotti altrimenti destinati a giacere invenduti nei magazzini.
Negli Usa come in Italia, sconfitta ed afasia delle sinistre, secondo Rampini nascono dalla loro identificazione secolare con lo statalismo, perché quando hanno conquistato i poteri pubblici non hanno dato buona prova di sé e non hanno saputo realizzare un funzionamento più efficiente e più solidale della pubblica amministrazione. E questo è “il miglior argomento a favore delle destre”.
Destra e sinistra scrive Rampini - non sono uguali davanti al malgoverno. Se rubano a destra o se la destra non fa funzionare meglio i servizi pubblici” si alimenta la popolarità della richiesta di smantellarli e di consegnarli ai privati che eviteranno sprechi e anzi li faranno rendere. A furor di popolo si griderà che lo Stato è il vero nemico e che di questo pachiderma costoso bisogna liberarsi al più presto. Ma se “invece ruba un politico di sinistra o se la macchina dell'amministrazione pubblica è scadente quando governa la sinistra, il prezzo che paghiamo è altissimo, irreparabile”.
Il giudizio di Rampini potrà apparire troppo severo, perché non tiene conto che il modello emiliano-romagnolo, estesosi in gran parte dell'Italia centrale, ha dato fra gli anni Sessanta e Ottanta buona prova di sé. Una robusta dialettica collaborativa fra enti locali, mondo della cooperazione, movimento sindacale e imprese ha dato vita ad un apparato agroindustriale votato alla modernizzazione democratica e aperto allo sfruttamento dei vantaggi offerti dalla diversificazione produttiva.
Ma è difficile dar torto a Rampini quando denuncia che l'occupazione dei poteri pubblici da parte delle sinistre non ha vinto e talora neppure combattuto ampie sacche di inefficienza, clientelismi parassitari e fenomeni disgustosi di corruzione e di malaffare.
Rampini non è però catastroficamente pessimista. Egli scommette sulla mobilitazione dei giovani e della società civile. La chiama “resilienza”. Se ho capito bene, è capacità di governare una fase di perenne instabilità e turbolenza passando “attraverso errori, tentativi, adattamenti, apprendimenti. E' dai fallimenti e dagli insuccessi che impariamo a crescere”.
D'accordo, ma come mi ha detto una volta Tony Ferigo, “quand'è che cominciamo a fare errori nuovi?”.

Mario Dellacqua
FEDERICO RAMPINI, Alla mia Sinistra, Mondadori, 2011

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