sabato 14 marzo 2015

Le vie dell'oscenità alla catarsi



Detesto la cittadinanza diffusamente accordata da decenni alla volgarità del linguaggio. Chi indossa questa maschera prepotente vuol coprire un vuoto di buoni argomenti, un'incapacità di dialogo e di ascolto, un'assenza di eleganza interiore. Una forma di violenza e di agghiacciante povertà.
Tuttavia, la mia non è nostalgia per il precetto della castità che all'Oratorio ti insegnava con Domenico Savio a preferire “la morte ma non peccati” e educava a vedere nella donna la sorgente della tentazione da combattere. Questa morale sessuofobica ha fatto molti danni. Per carità, niente di irrimediabile. Solo non so se basta tutta l'acqua degli oceani per ripulire superfici e profondità incrostate, e per restituire ai colori della vita l'innocenza aggredita da millenni di pedagogia della paura.
Domenico Starnone, con la sua “Autobiografia erotica di Aristide Gambìa”, esplora in lungo e in largo i recessi più imbarazzanti della sessualità. Il suo linguaggio non teme la fedele riproduzione dello sguaiato. La sua voluttà di dire l'indicibile non ha pietà del vietato ai minori, il suo gusto del proibito ci offre un campionario sterminato di scene dell'osceno descritte nell'interdisciplinarietà di tutti i loro aspetti meccanici e idraulici.
  Ho detto dell'osceno perchè, al confronto, è roba da seminaristi il sexy che abbiamo conosciuto con il gelsomino notturno di Pascoli, o nelle colline mammelliformi di Pavese, o in quelle che fanno ricordare a D'annunzio una bella donna con le  sue labbra morbide chiuse in un divieto, o in quelle “cosce tese chiuse come chiese” in Antonello Venditti. La magia del sexy si distingue dall'osceno perchè ha bisogno di immaginazione poetica che si nutre di un potere di velare e rivelare capace di continuo rinnovamento. E' stato Leopardi a insegnarci che l'immaginazione è più piacevole della realtà. Ecco perchè il corpo femminile, ricoperto dalla “siepe” degli abiti, mette in moto l'immaginazione e rende la sua visione più piacevole di quanto non faccia la pura esposizione della nudità.
Il romanzo libertino di Starnone è tutto il contrario. Giocando con la lingua, le lingue e le etimologie del napoletano, del latino e del greco il suo rosario trasgressivo ci porta là dove l'eros umilia le resistenze della poesia e varca i confini che lo separano dai territori dello scomposto. Intellettuale raffinato con ambizioni pedagogiche, il protagonista del romanzo di Starnone sa tutto l'immaginabile e il praticabile in tecnologie del corteggiamento, dell'adescamento, dello sfondamento. Ma qua e là, tra peli e pelle in trionfale esposizione, fa capolino un portentoso incidente che alla fine conquista la scena. Quando arriva lo smottamento con annesso cedimento strutturale degli affetti e delle famiglie, tutto sembra crollare e l'uomo che caccia, domina, conquista, possiede, prende ed è preso, lascia ed è lasciato, si scopre in tutta la sua fragilità e solitudine. In questo “lampeggiare di sangue, colpe e audacia”, Pascoli direbbe che “cielo e terra si mostrò qual era”. Aristide Gambìa sa tutto del sesso e nulla dell'umanità. “Dopo un'esistenza di coiti appassionati, ma senza legami veramente forti”, si scopre “accampato in una sorta di deserto affettivo, bianco, sghembo, serenamente deluso dai risultati del suo percorso erotico, convinto di non essere mai stato amato e scettico sulla sua stessa capacità di amare” (p.322). In questo deserto affettivo crolla persino la distinzione, fino alla fine sapientemente governata pur nella variabilità delle focalizzazioni, fra narratore e autore. Starnone denuda non solo i corpi, ma la meschinità dei “pensieri nascosti che rendono ambigui quelli palesi”. Misura la “allegra dissoluzione di ogni moralismo”, la “saccenteria permalosa del superficiale” che porta la donna, nel racconto di un uomo, a diventare una tappa, una tacca che figura in un elenco da collezionisti (pag.231). Che trascina il medesimo uomo a soffrire “non per la perdita delle figlie, ma per la colpa di godere della vita pur avendole perdute” (pag.320).
Nell'ultima parte del romanzo, Aristide Gambìa, alter ego di Starnone, gioca a rimpiattino con il ruolo di Starnone-autore: scopre in prima persona la “irrintracciabilità” delle donne della sua vita e confessa la sua stessa capacità di descriverne la personalità sfuggente alla maestria della sua penna così pronta nel cogliere i miracoli, i tracolli e i misteri della sessualità.
Il mistero non è solo l'identità delle donne, tanto più imprendibile quanto più se ne persegue il possesso. Mistero è l'amore con il fascino violento e vitale delle sue energie, con le sue leggi, con la sua fragilità e il suo continuo risorgere proprio quando sembra tradito, calpestato, perduto e immiserito. In quest'opera di scavo impietoso nella propria memoria famigliare, Starnone non si accontenta di “una commemorazione quieta della presenza delle donne nella sua vita”, ma addirittura si lancia sulle tracce dell'imprendibile madre con affetto struggente e lucido:  non tace le violenze subite per mano del padre, ne ricerca le paure, le gioie e i silenzi che mai avevano fatto ombra alla sua traboccante voglia di vita e di felicità.
Insomma, non ha voluto fare un audace esercizio linguistico nelle praterie commerciali dell'osceno. Neppure ha voluto “mostrarsi reciprocamente le ferite e consolarsi”: ha voluto indicare per sé e per il lettore i possibili sentieri della risalita.  E, leggendolo con  crescente stupore, mi è venuta in mente la zia di Kerouac, secondo la quale “il mondo non avrebbe mai trovato pace finchè gli uomini non fossero caduti ai piedi delle loro donne chiedendo perdono”.

Mario Dellacqua

DOMENICO STARNONE, Autobiografia erotica di Aristide Gambìa 
Einaudi 2011, p. 432, euro 12,50

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