martedì 31 marzo 2015

IL PAPA E L'ECONOMIA CHE UCCIDE



Quelli sì che erano tempi. Correva l'anno 1987 quando Cesare Romiti indicava al pubblico ludibrio “quel rigurgito di anticapitalismo di matrice cattolica e marxista che sta contagiando settori politici anche della maggioranza”. Aveva il vento in poppa l'Amministratore Delegato di Corso Marconi quando, a chi protestava perchè la Fiat voleva prendersi tutto, dichiarava: “Guardi, la parola anti-trust non mi piace proprio, mi lasci dire tutela della libera concorrenza”. L'affermazione non avrebbe trovato il consenso di Pio XI che nella “Quadragesimo anno” del 1931 deplorava “una tale concentrazione di forze e di potere (..) frutto di quella sfrenata libertà di concorrenza che lascia sopravvivere solo i più forti, cioè spesso i più violenti nella lotta e i meno curanti della coscienza”. E nel 1990 Romiti poteva severamente discutere di etica e di economia sentenziando che “in una società libera e pluralistica, chi ha scelto di fare l'imprenditore ha l'obbligo morale di perseguire il profitto della sua impresa con tutti i mezzi legittimi a sua disposizione”.
E siccome non è possibile “stabilire che cosa significa eccessivo”, bisogna togliere di mezzo una buona volta, insieme con questo fastidioso “quesito”, anche le obiezioni ingombranti dell'uguaglianza che, nemica dell'efficienza e della responsabilità, porta “fino agli estremi eccessi del terrorismo e l'anarchia in fabbrica”. (Vedi AA.VV. Etica ed Economia, “La Stampa”, 1990)
Ma quei tempi a volte ritornano. Intendiamoci: nessuno ha mai contestato con la vivacità di Romiti Sant'Ambrogio e San Giovanni Crisostomo, per i quali la divisione dei beni con i poveri non è un atto di generosità, ma di doverosa restituzione di quanto è stato loro rubato. “Non fai che rendergli ciò che gli appartiene”. E Cesare Romiti non si è mai permesso di incrinare l'autorità di Pietro, che negli Atti degli Apostoli fa fare una brutta fine ad Anania, reo di aver versato alla comunità cristiana solo la metà dei suoi beni e non tutto all'atto della sua conversione.
Pur tuttavia, Papa Francesco è stato accusato di marxismo dai molti maestri della scuola neoliberista. Il suo torto è quello di contestare i benefici della globalizzazione. Il suo torto è quello di affermare la necessità di tutelare le prestazioni del welfare e l'intervento dello stato nell'economia. Il suo torto è quello di condannare la “cultura dello scarto”, già vivisezionata da Zygmunt Bauman nel 2006, in base alla quale il flagello della disuguaglianza sociale, sofferto collettivamente, si trasforma in una risorsa goduta individualmente perchè misura il proprio successo dal grado di fallimento e di esclusione degli altri. Il Papa ha torto perchè critica la dottrina della “ricaduta positiva”, in base alla quale l'arricchimento dei Paperoni non va avversato, ma religiosamente sopportato nella fiduciosa attesa che esso faccia sgocciolare sui poveri quote apprezzabili di benessere e di inclusione sociale. Papa Francesco ribatte che il bicchiere riempito non ha fatto traboccare niente a vantaggio dei poveri ma, una volta colmo, si è magicamente allargato. Pertanto Bergoglio conferma che “questa economia uccide”.
Il suo linguaggio asciutto e candidamente radicale ha stanato i suoi critici, anche se essi parlano con l'imbarazzo prudente di chi, per evitare la certificazione pubblica di rotture combattute come il demonio, cerca di allontanare da sé la responsabilità di gravi divisioni nella Chiesa. Ciò non ha tuttavia potuto impedire che affiorasse in superficie la pluralità delle diagnosi e delle terapie in vivace contrasto. Questo libro di Giacomo Galeazzi e Andrea Tornielli lo documenta. I due vaticanisti de “La Stampa” hanno il merito di raccogliere una selezione ben coordinata dei pronunciamenti del Papa mettendoli a confronto con i suoi critici obbedienti.
Ettore Gotti Tedeschi, prima allo Ior, poi consigliere di Tremonti alla Cassa Depositi e Prestiti, poi al Banco Santander e all'Istituto San Paolo, dice che va cambiato l'uomo con la sua propensione inguaribile all'invidia, all'accumulazione e alla corruzione. Ma non si può pretendere la correzione politica del funzionamento naturale di un'economia che – caso mai – ha visto ingigantire le sue difficoltà con il “crollo delle nascite e le conseguenti ricadute sfavorevoli come l'invecchiamento della popolazione, la necessità del mantenimento degli anziani, la crescita delle tasse, del debito, la distruzione del risparmio”. Gotti vorrebbe più etica nell'economia, ma gli duole dover riconoscere che purtroppo il cristianesimo con le sue risposte giuste non può essere imposto per legge coranica.
Secondo il commentatore radiofonico americano Rush Limbaugh, il Papa esagera nella condanna dell'idolatria del denaro, proprio mentre Vaticano e Chiesa americana non avrebbero l'influenza e il peso che hanno senza le tonnellate di dollari di cui sono proprietari. Secondo il filosofo Michael Novak, il quale già non aveva digerito la critica di Benedetto XVI alle delocalizzazioni, i giudizi secchi e severi di Papa Bergoglio sono troppo influenzati dalla sua esperienza argentina che non può essere estesa all'intero contesto occidentale. Possono essere sopportati come “omelia”, ma non come dogma che si azzarda a scalfire i dogmi del liberismo. “Affidare la giustizia sociale primariamente allo Stato è un errore”, aveva scritto Novak in un testo del 2004 curato da Giulio De Rita (“Etica Democratica”, Rubbettino). Dunque avanti con il no ai matrimoni gay, sì alle Confraternite di San Vincenzo, ma niente collusioni con chiunque proponga interventi strutturali di lotta alle disuguaglianze.
Il testo di Papa Francesco ha lo storico merito di prendere la parola sul terreno dell'economia. Lungi dall'essere una scienza esatta e neutrale, essa si rivela opinabile e mostra un inesorabile combattimento fra modelli di sviluppo e visioni del mondo che sarebbe ipocrita negare o anche solo edulcorare con doverosi quanto inefficaci richiami alla conversione. Il testo del Papa costringe gli epigoni del neoliberismo ad uscire allo scoperto, ma incoraggia prima di tutto i credenti a prendere la parola, a non ritagliarsi il solo rispettabile spazio della testimonianza. Il mondo cattolico, sempre composito e sottoposto alle mille sollecitazioni contraddittorie dei poteri e dei gruppi sociali, è energicamente spronato a fronteggiare il trauma della modernità non con la chiusura o la scomunica delle libertà e delle rivoluzioni, ma con l'arma del dialogo e con l'incessante lettura del “segno dei tempi” già avviata dall'esperienza conciliare.
Il messaggio del Papa è destinato anche a incrociare il travaglio dei non credenti, specie quando esorta a non fermarsi e a non rassegnarsi, quando incita a non abbandonare il campo dell'impegno politico nelle mani di troppi avventurieri feroci e scriteriati, quando invita a “lavorare sulla lunga durata, privilegiando l'avvio di processi piuttosto che l'occupazione di spazi di potere”. Innescare processi “senza chiuderli o definirli” prefigurandone l'esito a tavolino, vuol dire “iniziare nuovi dinamismi nella società coinvolgendo altre persone e altri gruppi che li faranno propri e li porteranno avanti”.

Mario Dellacqua

ANDREA TORNIELLI – GIACOMO GALEAZZI 
Papa Francesco. Questa economia uccide 
Piemme 2015, pag. 220, euro 16,90

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