La
letteratura sulle disuguaglianze è ormai ampia. Tuttavia, i Premi
Nobel per l'economia e il successo del “Capitale nel XXI secolo”
di Thomas Piketty non hanno ancora fatto breccia a Bruxelles. Da
quelle parti, la scuola del pensiero liberista detiene saldamente
l'amministrazione di tutte le cattedre. Le autorità di Bruxelles
sono riverite dagli editorialisti che insegnano ai governi ad essere
meno timidi nell'aggredire la spesa pubblica e nell'alleggerire i
costi del lavoro conquistando maggiore flessibilità in entrata e in
uscita (fa disordinato – chissà perchè - dire libertà di
licenziamento come condizione per assumere di più).
Su “La
Stampa” del 22 dicembre, ad esempio, Francesco Manacorda si
augurava la vittoria della “flessibilità contro la precarietà”,
chiedendo se oggi per un venticinquenne “è più importante
venire inserito in un percorso che mano a mano aumenti le sue tutele
o venire garantito contro i rischi di perdere un lavoro – che per
altro oggi non ha – dall'art. 18”. Risposta
ovvia. Ai suoi tempi, Giulio Tremonti era più crudo e
più comunicativo: meglio un lavoro precario che la disoccupazione.
Geniale.
Indiscussa
autorità del pensiero e della sociologia, Zygmumt Bauman nel 2013 ha
distillato per Laterza un pamphlet dedicato, sul fronte
opposto, alla contestazione delle disuguaglianze. Non manca
nell'opera una robusta indignazione morale, ma l'autore è impegnato
a dimostrare che i crescenti squilibri nella distribuzione del
reddito sono inefficaci ai fini della lotta contro la crisi, quando
non ne sono la causa principale.
Secondo
John Galbraith, nel 2013 il 20 % più ricco della popolazione
mondiale consuma il 90 % dei beni prodotti (nel 1998 l'86%), mentre
il 20 % più povero consuma l'1%: quindici anni fa l'1,3% (p.11). La
Tanzania ha “un prodotto interno lordo di 13-14 miliardi di
dollari l'anno per quasi 40 milioni di abitanti, mentre la società
finanziaria Goldmans Sachs da sola guadagna oltre 9 miliardi di
dollari che vengono divisi tra qualche centinaio di azionisti”.
(Bauman, La paura liquida, 2006, p.93). In Calabria, una delle
regioni più povere d'Europa, un terzo della ricchezza (8,2 miliardi
di euro su 26) giace nelle tasche del 3% delle famiglie, dice una
ricerca di Prometeia. Ecco a che cosa è servita la brillante
e spregiudicata decontestualizzazione del Vangelo di Matteo: a chi ha
è stato dato in abbondanza e a chi non ha è stato tolto anche
quello che aveva.
Nell'ultimo
trentennio inglorioso, lasciata libera di andare dove voleva, la mano
invisibile del mercato ha moltiplicato in alto – al vertice della
piramide - i privilegiati ultraricchi. In basso – alla base sempre
più ampia della piramide – la spogliazione del ceto medio ha
moltiplicato la platea degli emarginati e dei poveri. Con Stiglitz,
Dorling e Lansley, Bauman è convinto che una mancata inversione di
rotta avrà come esito finale l'autodistruzione dell'ordine
democratico. Perciò, i dati più allarmanti e scandalosi vengono
nascosti: incrinerebbero la diffusa convinzione in base alla quale le
differenze sociali sono il prodotto naturale di una civiltà che ha
bisogno di rivalità per raggiungere la prosperità dello sviluppo.
Le
vittime della competizione vengono colpevolizzate, “biasimano se
stesse” e addirittura concordano con il verdetto di condanna
emesso dai loro carnefici: esattamente come Gregorio Samsa considerò
ordinaria e normale la sua eccezionale e sorprendente trasformazione
in scarafaggio. Di fronte all'ostentazione disgustosa di tanti
privilegi, il mio amico Orso diceva di stupirsi nel vedere che la
gente non usciva mai di casa la mattina con il bazooka. Orso
esagerava e, infatti, la mattina lui usciva di casa con la
bicicletta: ma la sua iperbole era del tutto ingiustificata?
Esplosioni
di rabbia e cicliche ribellioni esprimono il “disperato
desiderio degli esclusi di entrare nel paradiso dei consumatori”.
Per molti di loro la felicità si trova sugli scaffali dei negozi
che sono “farmacie per tutte le inquietudini della vita,
qualunque cosa propongano, pubblicizzino o vendano”. Poichè le
vittime non intendono “sfidare il dogma fondamentale della
società consumistica”, queste ribellioni sono agevolmente
riassorbibili dalla sapiente amministrazione delle grandi paure e di
superiori domande di ordine sempre pronte a imporsi sotto forma di
emergenza.
C'è
un passaggio a nord ovest? Possiamo ancora evitare “lo
schianto”? Secondo Bauman, si può cercare la via d'uscita
nella convivialità e nell'associazionismo lanciato ormai in tutta
Europa alla riscoperta del “bene comune”: la garanzia
fornita a tutti di accedere ad alcuni diritti fondamentali (tra essi
la dignità del lavoro e del reddito, la salute e l'istruzione)
prepara un vantaggio collettivo, mentre la felicità che deriva dal
godibile spettacolo del fallimento altrui porta alla catastrofe, non
all'armonia prestabilita.
L'arricchimento
di pochi “è la via maestra per il benessere di tutti” o
l'anticamera dell'hobbesiano “stato di natura” in
cui domina la lotta “omnium contra omnes”
e “homo homini lupus”? Si ripropone l'eterno duello
fra chi, come gli epigoni di Margaret Thatcher, pensa che la società
non esiste, esistono solo gli individui e chi pensa alla modernità
come conquista della scelta di cooperare amichevolmente al
perseguimento di scopi condivisi. L'alternativa è secca e sempre più
stringente.
Mario
Dellacqua
ZYGMUNT
BAUMAN, La ricchezza di pochi avvantaggia tutti. Falso!
Idola-Laterza 2013, p. 100, Euro 9
Vedi
anche ZYGMUNT BAUMAN, La paura liquida
Laterza 2006, p. 233,
Euro 10
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