domenica 15 febbraio 2015

GADDA E LA GRANDE GUERRA



Da dove in Italia è venuto il fascismo destinato a fare scuola in Europa per poi trascinarla in un conflitto memorabile? In quali ombre la creatura ha visto la luce? Me lo sono sempre domandato, ma risposte ferme e tranquillizzanti, nessuna. Forse sono tormentato da un'ossessione comparativa fra ieri e oggi: il totalitarismo è un fantasma spaventoso definitivamente dissolto o si è piuttosto saputo rinnovare indossando maschere accattivanti e escogitando trucchi peggiorativi?
Se si pensa – e molti storici lo pensano – che la deflagrazione della “Grande Guerra” abbia contrassegnato l'avvio di una novecentesca “guerra dei trent'anni”, diventa fondamentale chiedersi quali energie agitassero l'anima di quei ventenni e quali idee mulinassero nella loro testa prima di muovere le loro gambe ed armare le loro braccia.
Non erano tutti uguali, ma respiravano la stessa aria e Carlo Emilio Gadda era uno di quei giovani. Il suo “Giornale di guerra e di prigionia” con il “Diario di Caporetto”, ripubblicato dalle Edizioni San Paolo cento anni dopo il 1914, aiuta a comprendere l'impasto esplosivo di ardori e di frustrazioni che accompagnò tanti giovani  dall'entusiasmo per la trincea e per i “divini momenti del pericolo” (p.353) alla rabbia per la vittoria mutilata: la predicazione dannunziana arruolò presto nelle squadracce una gioventù refrattaria al grigiore della vita civile perché incapace di rinunciare ai ruoli di comando e all'uso inebriante della violenza.
UGUAGLIANZA DEI LINGUAGGI
Nel 1915 Gadda aveva 22 anni. Era un ufficiale che poteva bere champagne e permettersi mascarpone al cognac, frutta secca, aranci. La sua testimonianza lascia sorpreso chi, come me, erroneamente pensava che fosse netta la distinzione fra interventismo nazionalista e interventismo democratico. Il primo sosteneva che la guerra “sola igiene del mondo” fosse un'avventura affascinante e necessaria per liberare l'umanità dall'ingombro dei mediocri aspiranti al piattume parassitario dell'uguaglianza. Il secondo vedeva nella partecipazione italiana al conflitto un dovere vitale per completare l'opera del Risorgimento. Nella “quarta guerra di indipendenza”, la morte poteva apparire “utile e bella” (p.161 e 184) per liberare l'Europa dall'ultima odiosa autocrazia. Il nazionalismo usava il linguaggio incendiario dell'invettiva. L'interventismo democratico preferiva i toni accorati e gravi dell'allarme patriottico. Entrambi erano però accomunati dalla persuasione che la guerra fosse un momento di rigenerazione sanguinosa ma salutare di uno spirito nazionale assopito dalle mediocrità dell'Italietta giolittiana.
La distinzione fra i seguaci di Giovanni Papini e gli amici di Cesare Battisti si può trovare sui manuali. Ma è una distinzione che non impedì e anzi incoraggiò gli uni e gli altri a “gioire della superba vita del soldato” (p.322), a sentirsi attratti dalla trincea “per quel senso di difficoltà e durezza speciale che essa offre” (p. 271) quando non appariva ancora una cava “da animali sotterranei” (p.71).
Il diario di Gadda, con il suo occhio di protagonista tra milioni ancora ignaro degli sviluppi di quella pagina cruciale della storia italiana sfociata nel ventennio, dimostra che talune pulsioni non si attutirono nello scontro e nell'incontro, ma si moltiplicarono convivendo spesso nella stessa persona: il fascismo nascente avrebbe poi saputo interpretare quella magmatica aggressività offrendo una personalità e uno sbocco costituente alle energie compresse dalle delusioni patite e dalle aspirazioni calpestate.

DISPREZZO PER L'UGUAGLIANZA
La prima pulsione scaturisce da un persistente sentimento elitario, espresso in una persuasione ostentata di superiorità e di disprezzo per gli “ambienti plebei” che il giovane Gadda non ha modo di frequentare (p.91). La stagione di decadimento e di scompiglio che gli capita di vivere deve la sua miseria alla “poca voglia di andare al fronte”, al “timore di morire” tipico di “ladri, egoisti, poltroni, indolenti, incapaci” che lo circondano (p.50). L'italiano è una “carogna che brontola e se la prende coi superiori nel momento della fatica” (p.105).

AMORE PER LA PATRIA E PER LE ARMI
La seconda componente è il patriottismo legato al dovere di impugnare le armi in una guerra “santa e necessaria” (p.101) come unica prova convincente che si ama il proprio paese e che si sanno respingere le tentazioni vili del pacifismo: “voglio affrontare con serenità – si legge a p. 82 del “Diario” - la rabbia delle palle nemiche perché solo allora il mio paese avrà un figlio non indegno”. Questa contrapposizione ricattatoria fra “desiderio di pace” e “amor di patria” è stata recentemente definita dal cardinale Pietro Parolin una “strumentalizzazione messa in atto da chi nel 1914 spingeva per entrare in guerra” ed era pertanto interessato a “sacralizzare la violenza”.
Se per D'annunzio, Giolitti meritava l'epiteto di “cagoia”, Gadda era convinto che “dar corso a sentimenti troppo affettuosi non è da soldato”. Non vedeva l'ora di combattere, proprio perché provvisoriamente capitato “in un punto morto” della guerra dove “non si conclude nulla” e si contrae la malattia della “paralisi della volontà e del desiderio” (p.137). Sentenziava che “l'uomo deve essere uomo e non coniglio” come quei soldati “rintanati nel buco come troje incinte” (p.143). O come quella “masnada di vecchioni sbilenchi e di giovani pelandroni” (p.163).
Ufficiale, Gadda sapeva di non avere la stoffa del leader perché “troppo buono, troppo debole, troppo gentile” (p.199), ma quando la fucileria tambureggiava e i cannoni urlavano nelle foreste, sentiva moltiplicarsi volontà, vigore, virilità, entusiasmo in “una specie di commozione sovrumana” che gli “pervade(va) l'anima” (p.212) e lo induceva a detestare quanti “desiderano solo la pace a qualunque prezzo” (p.241). Un capitano sardo lo fece inorridire perché aveva “una paura vacca” e la scusava “con il pensiero della sua famiglia” (p. 123).

DISPREZZO PER GLI ITALIANI
Quando arriva Caporetto, “è la catastrofe”. Gadda si sente finito come un cadavere. Aranci e frutta secca lasciano il posto all'ossessione quotidiana della fame “continua”, “terribile”, “orrenda”, “torturante”. Neppure questa “fame cagna” scalfisce il suo spirito elitario. Una volta catturato e imprigionato, al massimo gioca a scacchi, ma snobba la pubblicazione di un giornale manoscritto e l'attività teatrale dei commilitoni detenuti. Persino gli ufficiali sono una “vile plebe” affetta da “proterva ignoranza”. I compatrioti sono dantescamente rappresentati come la “compagnia malvagia e scempia” che ha “consegnato la patria allo straniero” (p.251) e “la tradirono con la loro debolezza” (p.318). Con certi “esseri è dignità non avere rapporti”. Si sente “un bruto” (p.254), ottuso alla commozione e vorrebbe essere “un dittatore per mandarli al patibolo”. Riderebbe di gioia se li vedesse morire e li odia più dei tedeschi (p.375).
Accumulata l'esperienza umiliante di Caporetto e della prigionia, consumata l'ebbrezza della vittoria e immersa nel “delirio epilettico” della vittoria mutilata (p.404), questa generazione tornò a casa, ma non sapeva “come fare a vivere” (p.418), specie se provata, come accadde a Carlo Emilio Gadda, dalla morte del fratello aviatore.

DISPREZZO SOCIALISTA PER I REDUCI
Ora è facile amarezza constatarlo: invece di aprire il dialogo con quell'universo turbolento di soggetti smarriti e rabbiosi, i socialisti scelsero la massa dei reduci come bersaglio della loro polemica additandoli tra i responsabili della guerra. Da allora, i reduci videro nei “rossi” una presenza estranea ed ostile al loro micidiale malessere sociale ed esistenziale.  Spenti i bagliori del maggio radioso, D'annunzio sarebbe tornato a dominare il proscenio. Insegnò lui “come fare a vivere” a quella generazione che soffriva un “dolore bestiale” e non sapeva reggere “il macigno più grave” rappresentato dal “mancare dell'azione”, dal non potersi più “gettare nel pericolo” amato “come l'alcolizzato ama sopra ogni cosa il veleno da che avrà la morte” (p.364).
D'annunzio offrì il mito del gesto esemplare che esalta la virilità dei coraggiosi e col sangue educa tutti gli altri all'obbediente ammirazione per il capo. Mussolini, con il programma dei suoi sansepolcristi, rafforzò l'immagine della ditta nascente proponendo la terra ai contadini, “una forte imposta straordinaria sul capitale a carattere progressivo”, una “vera espropriazione parziale di tutte le ricchezze” ed “il sequestro dell'85% per cento dei profitti di guerra”. Strada facendo, il socialisteggiante bagaglio anti padronale e antimilitarista si rivelò ingombrante e fu gettato. Ma il convoglio rimase saldamente agganciato alla locomotiva. Era carico di giovani pronti a scendere per salire sui camion delle spedizioni punitive.

Mario Dellacqua

CARLO EMILIO GADDA
Giornale di guerra e di prigionia con il “Diario di Caporetto” 
Edizioni San Paolo, 2014

Nessun commento:

Posta un commento