venerdì 21 marzo 2014

wwwNonestregliata@indes.it - Tanto buio oltre la siepe


La desertificazione industriale è l’aspetto più evidente della crisi economica che percorre l’Italia. Abbiamo gli occhi pieni di servizi televisivi che, in un abbraccio mortale,percorrono il nostro paese, dall’estremo nord all’estremo sud, raccontandoci di licenziamenti e cassa integrazione. Guardando la nostra realtà locale, fuori dal racconto video, viviamo “live” questa  trasformazione violenta, profonda e dolorosa che angoscia tanti ma che respiriamo tutti.
None aveva due eccellenze produttive: la Streglio e l’Indesit. Seppur in campi merceologici differenti rappresentavano due marchi  conosciuti a livello nazionale. Il paese stesso, oltre ad una fondamentale occasione di occupazione  per un congruo numero di residenti, ne ricavava un beneficio economico allargato a tutta la sua struttura sociale. I ripetuti passaggi di proprietà della prima società e il succedersi delle dichiarazioni  di fallimento della stessa, nonché la ristrutturazione per delocalizzazione della seconda, hanno rotto quell’equilibrio socio/economico preesistente, privando il paese anche di una parte importante della propria identità. Un’identità estremamente positiva per l’automatica identificazione  del luogo con la qualità dei prodotti finiti che ivi si producevano . In mancanza di altre risorse, era la zona industriale il biglietto da visita dell’intero paese. Sebbene ai margini dell’abitato e architettonicamente freddi e tutti uguali, gli stabilimenti e i capannoni, erano testimonianza di vitalità produttiva e benessere sociale. Una decadenza dovuta certamente alla globalizzazione dei mercati che impone all’Indesit l’allargamento della propria struttura societaria e la trasmigrazione in siti produttivi  a “miglior convenienza”. Per la Streglio è sintomatico però fare una riflessione e considerare la “decadenza” dall’antica proprietà facente capo all’eccellenza di Pernigotti per arrivare a recenti acquirenti, assolutamente estranei al “mestiere”, che tralasciando le vicissitudini legali, sembrano più pasticcioni che pasticcieri.
Consideriamo ora due nuove realtà industriali che nascono o si sviluppano in questo quadro di trasformazione generale. Una, sorta per iniziativa di imprenditori agricoli locali, produce energia elettrica da biogas ottenuto da  liquami animali e mais. L’altra, già preesistente, amplia alle materie plastiche la propria attività di riciclo. Entrambe iniziative private assolutamente meritorie perché assicurano la produzione di energia da fonti rinnovabile e il completamento virtuoso del ciclo di recupero dei rifiuti. Per quanto ovvio, esse non  ricostituiscono l’equilibrio socio/economico perduto dalla collettività. La loro “portata” occupazionale è minima, così come è valida la considerazione che la produzione di energia da fonti rinnovabili è un costo sociale rilevante per la collettività in quanto per l’imprenditore e sostenibile solo grazie alle ricche sovvenzioni statali. ( Trattando l’ambito locale è bene tralasciare tali considerazioni che nascono dalla mancanza assoluta di una precisa politica industriale nazionale. ). Entrambe hanno un punto in comune: stante il tipo di prodotto trattato, la loro sede lavorativa prevede una piantumazione a difesa del decoro visivo ambientale. E’ un’immagine simbolo della crisi: il passaggio dall’ostentata vitalità produttiva dei capannoni  al floreale occultamento dei rifiuti. Ma ancor più nella sostanza, prima si producevano prodotti finiti di buon valore che connotavano la società e nel contempo il paese, ora siamo fornitori di materie prime alla lavorazione di altri e il loro prodotto non dice niente di noi. Produciamo materie prime anonime di cui non abbiamo il monopolio. Ci siamo “africanizzati” e scopriamo che per quanto a nord si possa essere si è sempre il sud di qualcuno.
                                                                                                                                            Mario Ruggieri

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