lunedì 20 gennaio 2014

MONUMENTI? NO RAGIONAMENTI


Venerdì 17, alla sezione dell’Anpi presso l’Angolo, si è provato a ragionare su alcuni libri. L’intenzione non era quella di ‘esaminarli’ approfonditamente, bensì di coglierne qualche spunto intorno al nodo della memoria, della Shoah e della Resistenza e di metterli in dialogo fra loro. Eravamo diciotto, che non è un numero disprezzabile (neanche tre è un numero disprezzabile, però è un po’ più triste). C’era persino una anpina di Pancalieri! 

Il filo del discorso è stato questo: la storia, quella dei libri, è o cerca di essere oggettiva e critica. La memoria invece è più sfumata e legata ai sentimenti: è legata al sacro, mentre la storia è, o dovrebbe essere, laica. Siamo partiti dal libro “I sommersi e i salvati” (1986), dove Primo Levi afferma che quello è un libro «intriso di memoria», e per questo va «difeso contro sé stesso». A Levi l’idea del ‘testimone’ non piaceva, perché la trovava riduttiva. La testimonianza è sempre parziale, e raramente ha presente qual è la catena di cause che ha portato alla situazione testimoniata. Eppure da qualche decennio il complesso della ‘memoria’ è diventato sempre più centrale nel discorso pubblico, come dimostra l’istituzione in Italia, nel 2000, del Giorno della Memoria. Alberto Cavaglion, nel suo libro “La Resistenza spiegata a mia figlia” (2005), dice che questa data è venuta a contrapporsi a quella del 25 aprile, perché più ‘ecumenica’: il 27 gennaio si celebrano tutti i morti, tutte le vittime della violenza; il 25 aprile invece è una data più complessa, che una parte d’Italia preferirebbe dimenticare o non ha mai sentito come sua. Resistenza a chi? Liberazione da chi e da che cosa? 

Su questo spunto abbiamo cominciato a ragionare sul fascismo e su tre interpretazioni di esso. Benedetto Croce affermava che il fascismo è una malattia, una parentesi nella storia italiana. Piero Gobetti, già nel novembre 1922, nell’articolo “Elogio della ghigliottina”, lo considerava “l’autobiografia della nazione”, cioè un riassunto di tutti gli atteggiamenti negativi degli italiani: in primo luogo la rinuncia alla lotta politica. Per i marxisti, fra i quali Gramsci e Bordiga, costituiva una tappa decisiva della lotta di classe, un colpo di coda del capitalismo che dimostrava come questo fosse giunto alla fine. Ci sono poi molte altre interpretazioni, che mettono l’accento di volta in volta sul ruolo della grande industria, dei ceti medi, oppure dei fittavoli – che, invidiosi delle conquiste dei braccianti ‘rossi’, si sono uniti alle squadracce per ‘fare un po’ d’ordine’. 

Una delle tesi di Cavaglion è che non si spiega come il regime fascista sia stato in piedi così tanto tempo senza tenere conto del consenso che questo ha avuto. Lo stesso vale per il regime nazista, che è stata una miscela di terrore e forte consenso (ovviamente, da parte di coloro che non appartenevano alle categorie perseguitate: ebrei, zingari, omosessuali, comunisti, Testimoni di Geova etc.) Cavaglion ragiona sulla ‘seduzione’ che Mussolini ha esercitato sul popolo italiano, e lo fa usando un bel racconto di Thomas Mann, “Mario e il mago” (1929), dove si parla della vacanza di una famiglia tedesca a Forte dei Marmi, nel 1926.

Qui il narratore ha modo di vedere il tronfio nazionalismo, «l’ingenuo abuso di potere e la strisciante corruzione» del popolo italiano, che si rivelano in piccoli episodi. Gran parte del racconto è dedicato a uno spettacolo di magia, tenuto dal mago Cipolla, un uomo sgradevole dai capelli tinti, che fa una serie di numeri d’effetto e di ragionamenti che onorano il Duce e le sue idee. L’ultimo numero ha per vittima il cameriere Mario, che i tedeschi hanno già conosciuto in un caffè; il mago gli fa credere di trovarsi di fronte alla donna di cui è innamorato e si fa baciare su una guancia. Risvegliatosi, Mario prende una pistola e gli spara. L’ultima frase del racconto è: «un finale di terrore, un finale catastrofico. E tuttavia un finale liberatorio». Qui le interpretazioni possono variare: Mario uccide Cipolla per la violenza che ha subito di fronte a tutti, o perché il mago non ha mantenuto le promesse? Ribaltato sul popolo italiano, e su quello tedesco: l’odio postumo per i dittatori è dovuto al sistema ideologico e alle violenze intrinseche, oppure al fatto che le promesse (per esempio di grandezza nazionale) non sono state mantenute? In ogni caso, sulla scorta di Mann, Cavaglion dice che dalla nostra prospettiva sarebbero certo stati opportuni, se non proprio più colpi di pistola, almeno più ‘No’ all’interno dei regimi. 

Per l’ultima parte della chiacchierata abbiamo tirato in ballo anche Jean Améry e il suo “Intellettuale ad Auschwitz” (1966), un libro interessante che condivide con Cavaglion e Levi l’idea che il ventennio e il dodicennio non si possono spiegare (e neppure combattere) se non si sanno riconoscere le responsabilità che non solo in alto, ma anche in basso li hanno alimentati, tollerati, sopportati, entusiasticamente sostenuti, scelti come male minore, ammirati, lasciati fare e via dicendo. La caduta del fascismo e del nazismo non è avvenuta per ribellioni popolari, ma per traumi esterni – l’alleanza USA-URSS e poi la guerra perduta – e per congiure di palazzo – il 25 luglio 1943 per il fascismo, il 20 luglio 1944 se avesse avuto successo l’attentato a Hitler. Cavaglion rileva che, in quasi tutti i discorsi della Resistenza, sembra che l’8 settembre sia l’inizio del fascismo; in realtà non si tiene conto dei vent’anni precedenti. La Resistenza è stato uno scatto d’orgoglio e consapevolezza, condotto da una minoranza piuttosto esigua: al cui interno c’erano anche, indubbiamente, mele marce e situazioni non pure. Non si tratta allora di monumentalizzare la Resistenza e di darne un’immagine pulita e limpida, che sarebbe falsa, ma di ‘leggerla’ per dare forza ai nostri sforzi di oggi.


La lotta per la difesa e l'applicazione della Costituzione repubblicana risulta rinvigorita dal riconoscimento del carattere incompiuto della Resistenza i cui limiti frenano nei nostri giorni lo sviluppo della vita democratica. Uguaglianza, libertà, laicità, tolleranza, pluralismo, rispetto per le minoranze, legalità, tassazione progressiva dei redditi, istruzione, lavoro, salute non sono conquiste acquisite una volta per tutte, ma vanno difese una volta raggiunte e continuamente sottoposte al vaglio del controllo popolare e della cittadinanza consapevole. Fin qui i ragionamenti di Mario e Massimo.


La serata è stata poi animata da una discussione su vari punti, il più interessante dei quali è stato forse il ragionare sui ‘sedotti’ e sulle loro responsabilità. Quali strumenti avevano i contadini e gli operai degli anni Venti per vedere dietro alle lusinghe di Mussolini? D’altra parte, però, come è stato possibile, dopo le leggi razziali, fare finta di niente quando il professore o il collega sono spariti da un giorno all’altro dal proprio posto di lavoro? 

Ci siamo lasciati con tanti dubbi, e con la voglia di ragionare insieme su queste e altre cose – per esempio: non sarebbe male incontrarsi una volta per parlare dei primissimi anni del Fascismo, di come è nato e come si è inserito nella società italiana… alla prossima, dunque.


Massimo Bonifazio

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