sabato 11 gennaio 2014

Il valore delle adozioni: leggi che mangiano la ciambella e lasciano il buco?



Ho seguito e provato a capire cosa è successo in Congo alle 26 famiglie italiane. Mi è tornata alla mente quella scritta che campeggiava in tutte le botteghe negli anni passati: “per colpa di qualcuno non si fa credito a nessuno”. Temo che qualche porcheria sotto specie di pratica adottiva abbia infangato tutto, ma non capisco neanche quelli che a partire da questa vicenda rispolverano il fatidico: “non dovrà più accadere”, oppure “dobbiamo riformare la legge”.
Intanto, è vergognoso che le notizie sulle famiglie italiane in Congo vengano accompagnate da immagini di grande miseria e povertà che pure esistono. Ma allora, visto che da quelle parti c’è una sede Rai e un inviato, Enzo Nucci, perché non gli si chiede una adeguata e corretta informazione magari accompagnata con immagini reali?

Kinshasa, la capitale del Congo, dove attualmente ci sono le famiglie italiane, è una città con standard internazionali. Il Congo è uno dei paesi africani maggiormente rapinato dall’occidente: il Coltan, minerale usato per i nostri computer e telefonini arriva da lì.
Ma torniamo alla triste vicenda congolese, e proviamo a capire come si è giunti a questo livello. L’adozione internazionale è stata in Italia come una gustosa ciambella al centro di tante voracità. Oggi ci rimane il buco, e in questo buco cadranno i bambini negati dei loro diritti, ma anche le tante persone per bene che però non hanno fatto abbastanza per evitare che ciò accadesse.
Con la legge 476 del 1998, si metteva fine al cosiddetto fai da te: coppie che ricevevano un decreto di idoneità e poi da sole si mettevano in viaggio all’estero alla ricerca di un bambino da adottare (tramite missionari o anche faccendieri). Ma già allora, e anche da molto prima, esistevano associazioni di volontariato che senza fini di lucro dedicavano con passione il proprio tempo ad aiutare le famiglie impegnate a realizzare il proprio progetto: accogliere nel proprio ambito familiare un bimbo in assoluto stato di abbandono proveniente non solo da un paese del sud del mondo. Fino a venti anni fa sono arrivati in Italia bambini provenienti dagli Stati Uniti.
La legge 476, riconosciuta da tutti come la più efficace a regolare il percorso adottivo, ha cominciato da subito a subire le prevedibili incursioni per allargarne l’interpretazione. Così siamo giunti dai dieci iniziali enti autorizzati, ai circa settanta attuali. Si è passati dallo spirito iniziale della legge che puntava a una famiglia per ogni bambino, a un bambino per ogni famiglia e ancora adesso tanti tra gli addetti ai lavori non comprendono la differenza sostanziale. L’adozione diventava rimedio alla sterilità: in questo paese in eterno conflitto sui diritti civili, gli enti che nascevano trovavano facilmente appoggio in gruppi politici e questa diventava una garanzia per il loro prosieguo. Con la legge 476 era sorta la CAI (Commissione per le Adozioni Internazionali), rappresentata da una decina di ministeri: il suo presidente cambiava con la stessa tempistica con cui si sono alternati in questo ventennio i governi italiani. In questo caos anche le migliori leggi cedono.
Ma, insomma, servono davvero una ventina di enti italiani autorizzati all’adozione internazionale nella potente e antidemocratica federazione Russa? Aggiungete che poi nello stesso paese operano anche enti di tutti gli altri paesi europei e nord americani. Questo stesso ragionamento è estendibile anche all’Ucraina o Etiopia oppure Congo. Soprattutto, tutti questi enti operano nell’esclusivo interesse dei bambini? Si adoperano per prevenire nuovi abbandoni? Quali controlli vengono effettuati sui contributi che gli stessi ricevono dalla CAI? Sono tutti mirati a prevenire gli abbandoni e a migliorare la condizione di chi vive in quei luoghi o una parte serve a rafforzare il legame tra ente autorizzato e istituto che dà poi bambini in adozione?
La mia sincera preoccupazione è che anche su questo aspetto di vita funzioni la metafora che ho utilizzato in precedenza: i furbi si sono mangiati la ciambella e gli onesti si tengono il buco.
L’adozione internazionale, rimane per me un’esperienza di grande valore. Non è un surrogato per coprire vuoti. La sua difesa è un sostegno alla promozione dei diritti dell’infanzia, ma anche un finestra sul mondo, quello della giustizia, della solidarietà, della dignità.
Io da genitore adottivo ho messo a disposizione il mio essere. Quello che ne ho ricevuto è decisamente superiore e non sono disposto a mediarlo con i tanti cialtroni sempre presenti per trarre vantaggi dalle sofferenze altrui.
Sono molto vicino alle famiglie oggi bloccate in Congo. Capisco la loro sofferenza. Le emozioni e le passioni che stanno vivendo oggi sono cominciate alcuni anni fa. In questi giorni si sono materializzate e resteranno indelebili per tutta la vita. L’incontro con il bambino/a, rimane uno dei momenti più belli. Lì si sono sciolti ghiacciai. La caparbietà con cui hanno costruito questo cammino dovrà essere ancora richiamata per superare questi difficili momenti. Perché poi bisognerà  pensare al futuro.

Beppe Amato

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