mercoledì 25 dicembre 2013

Il lavoro e la profonda notte dell’animo.

Il tasso di disoccupazione italiano ha raggiunto il 12,5% e tra i giovani ha superato il 40%. Possiamo immaginare i crampi allo stomaco di chi non riesce a mettere insieme un pranzo ed una cena ma siamo portati a sottovalutare l’emarginazione sociale dell’individuo che perde o non ha ancora un lavoro. Non ci deve quindi stupire il grido di disperazione che giornalmente ascoltiamo per la perduta dignità ancor prima che per le carenze economiche.
Il lavoro non è solo uno stipendio ma è anche realizzazione di sé, possibilità di immaginare e programmare un futuro. Chi ha un lavoro è in relazione con gli altri, talvolta in contrasto talvolta con spirito di gruppo, ma pur sempre con il sentire di un’ appartenenza assoluta tanto da identificarsi in esso e dire “io sono un operaio” o “io sono un impiegato” anziché dire “io faccio l’operaio” o “io faccio l’impiegato”.

La continua razionalizzazione dei sistemi di lavoro ha spostato il peso della fatica dal corpo alla mente. Con l’avvento delle macchine l’alienazione della catena di montaggio assicurava nello scorso secolo una maggiore produzione ma anche qualche incentivo economico frutto delle conquiste sindacali. Lungimirante, ma purtroppo isolata nel suo genere, l’esperienza “Olivetti” che prendeva in considerazione la formazione, la cura del benessere dell’individuo e la sua collaborazione all’organizzazione.
Oggi l’aspetto finanziario è al centro di tutto. La ristrutturazione interessa gli individui ancor prima che gli strumenti del lavoro. Se un’azienda licenzia la sua quotazione in borsa sale. Le fusioni non sono la sommatoria di due entità ma l’una che fagocita l’altra. Come in un processo metabolico la digerisce e la espelle. Tanti dovranno andarsene e ognuno teme di essere in pericolo. Il nemico non è più il “padrone” ma il- collega. Le relazioni sono inquinate da sospetto, separazione, allontanamento e difficoltà a mettere in comune le proprie esperienze.
Siamo condannati ad una società dove il lavoro è considerato un privilegio, venuto meno lo spirito di gruppo, scemano le istanze collettive a favore dell’individualismo. Un lavoro in solitudine con rapporti fluidi e continuamente mutevoli. Quarantasette tipologie di contratti, il sistema “cinese” di Prato o il caporalato delle regioni meridionali non sono ormai punte di iceberg ma un modus al quale la media si avvicina pericolosamente.
Chi ha un lavoro è costretto ad operare in precarietà sia contrattuale che ambientale. La sua disponibilità è, come si è solito dire, H. 24, ovvero sempre disponibile, per la dilatazione degli orari giornalieri, per la turnazione in quelli che prima erano i giorni festivi, perché ricevi l’e-mail quando stai per andare a letto. Lo si fa per la famiglia ma è la famiglia la prima a soffrirne.
Chi non ha il lavoro si sente sprofondare nelle sabbie mobili del divano di casa, quello che prima era tempo pieno dell’ufficio adesso è vuoto ed angosciante e se sei un giovane ti senti espulso ancor prima di essere accettato.
E’ tempo di riconsiderare le osservazioni di taluni economisti che, pur bollati come Cassandra, segnalavano la deriva di un sistema mondiale dominato dalla finanza. Occorre dare peso all’apertura della nuova chiesa di papa Francesco che, in antitesi alla sua storia, sembra aprirsi agli individui abbandonando pregiudizi e corporazioni. Qualunque intervento che non cambi le regole dell’economia mondiale non potrà che differire la soluzione del problema esasperando la crisi, gli animi ed i nazionalismi e con essi favorire l’affermazione di un moderno medioevo.

                                                                                                              Mario Ruggieri

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