lunedì 2 dicembre 2013

Gli incantatori non assolvono gli incantati

Quando spiega la Resistenza a sua figlia, il prof. Alberto Cavaglion mi sembra muoversi nella stessa direzione di Améry. Non si accontenta di solenni condanne o di tardive autoassoluzioni. Lo fa senza proporre modelli. Non cerca emozioni, commozioni, entusiasmi e ammirazioni, ma sceglie l'ispirazione asciutta e antieroica delle domande scomode che finiscono per illuminare chi vuole salvare e non santificare lo spirito della Resistenza. “Bisogna scrivere anche le cose sgradevoli”, afferma Cavaglion a pag. 86. Ciò significa non temere la scoperta dei suoi errori e anche delle sue vergogne: significa saperle vedere come un limite che interroga continuamente l'autobiografia della nazione, le zone grigie, le collaborazioni e i consensi che, in alto e in basso, nelle classi subalterne non meno che in quelle dirigenti, hanno permesso vent'anni di regime. Significa sapere sempre che bisogna fare attenzione, come direbbe Calvino nei suoi “Sentieri dei nidi di ragno”, a non stare troppo legati alla ruota che ci macina, fatta di “quel furore antico che è in tutti noi, e che si sfoga in spari, in nemici uccisi, è lo stesso che fa sparare i fascisti”. Ma è un repertorio di “gesti perduti”, di “inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perchè non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell'odio” che pure vorrebbero estirpare una volta per tutte.

Per spiegare la parabola del fascismo, Cavaglion si serve di “Mario e il mago”, il protagonista di una novella di Thomas Mann nella quale i ruoli dell'incantatore e dell'incantato, del sedotto e del seduttore compaiono svelati nella loro complementarietà, solo apparentemente antagonistica. L'incantato si libera dell'incantatore e lo uccide solo dopo aver collaborato all'inganno con lo spettacolo della sua gioiosa e goffa umiliazione. Non sottopone a critica il regime delle promesse che sollecitano fedele dipendenza e servile attesa. Semplicemente, constata con sdegno il tradimento della parola data dal potere costituito. Semplicemente, si limita a contestare la beffarda consumazione dell'inganno. Il baratto tra rinuncia alla libertà e concessione, in cambio, di uno spicchio di benessere e di privilegio non è condannato, giacchè la protesta insorge esclusivamente contro il mancato rispetto dei patti, non contro il commercio di dignità e di pensiero. In questo regime, fra ubbidire e comandare corre una segreta coincidenza. I ruoli sono interscambiabili: sono “un solo principio, un'indissolubile unità; chi sa ubbidire sa pure comandare, e inversamente; un pensiero è compreso nell'altro, come popolo e duce sono compresi uno nell'altro”. E il duce è organizzatore del “durissimo e instancabile lavoro” che fonde volontà e obbedienza, servitù e comando in una sola identità, nata dalla rinuncia alla propria che è stata proiettata capovolta su un altro con le sue debolezze e fragilità.
La fuga dalla debolezza offerta dal regime – scrive Herta Muller, premio Nobel per la letteratura nel 2009 - significava compiacere la forza del potere, rinnegare se stessi e adattarsi al servilismo per poter andare avanti. Non si doveva dare la possibilità di far nascere una sensibilità che si risollevasse da sola e se la cavasse senza questa fuga". Parlava di Ceausescu, ma occorre riconoscere che i meccanismi del totalitarismo hanno leggi affascinanti e fisse nel tempo e nello spazio.
Cavaglion non perde occasione per ricordare che il fascismo è caduto da solo. Fu il catastrofico andamento della guerra l'origine della congiura di Palazzo del 25 luglio, non la ribellione popolare. Ritiene sbagliato e inefficace dipingere la dittatura a tinte fosche e truci come un regime sanguinario. Il successo del fascismo e il consenso che legava il Duce alle masse popolari nacque dalla capacità di miscelare la brutalità strettamente necessaria ad alimentare la continuità del potere con la grande seduzione. Resta però aperta una domanda scomoda: le responsabilità dell'imbonitore sono evidenti, ma quelle degli incantati? Li assolviamo? La mia risposta secca è no. Tuttavia, leggere il fascismo di ieri (o il berlusconismo di oggi) usando la chiave interpretativa della fascinazione, della manipolazione massmediatica, dell'illusionismo collettivo, non spalanca la comprensione dei fenomeni e presenta molti rischi che bisogna saper correre. Il più minaccioso è quello di spaccare il paese in due: da un lato le vittime docili del raggiro, dall'altro le minoranze etiche e riflessive che però non riescono a trasmettere quello che riflettono ai comportamenti delle grandi masse, troppo spesso considerate in stato di perenne minorità. “Volete che chi è stato fino a ieri uno schiavo diventi un uomo? Incominciate a trattarlo, sempre – scriveva Gramsci nel 1919 - come un uomo; e il più grande passo in avanti sarà già fatto”.
La domanda di Thomas Mann che Cavaglion riprende e ci getta in faccia, pesa sul futuro, non lascia in pace le nuove generazioni e le chiama in causa. Non trova risposta nella monumentalizzazione obsoleta e frustrante dei martiri. Ha bisogno di pazienza, coraggio e...resistenza. Maiuscola e minuscola. Ma senza le minuscole consapevolmente intrecciate, le maiuscole sono zoppe nella pagina e non sono capaci di arrivare a destinazione con parole spendibili.

Mario Dellacqua

JEAN AMERY, Intellettuale ad Auschwitz, Bollati Boringhieri.
ALBERTO CAVAGLION, La resistenza spiegata a mia figlia, L'Ancora, 2005.
THOMAS MANN, Mario e il mago, 1930.

HERTA MULLER, Il fiore rosso e il bastone, Keller 2012.

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