sabato 30 novembre 2013

IL NAZIFASCISMO NON FINÌ COME UNA MALATTIA. ECCO PERCHÈ NON SIAMO GUARITI.


Mi capitano tra i piedi, nel giro di pochi mesi, i morti di Lampedusa, l'”Intellettuale ad Auschwitz” di Jean Améry e “La Resistenza spiegata a mia figlia” di Alberto Cavaglion, uno storico torinese non tanto allineato emigrato all'Università di Firenze. Da Cavaglion a Thomas Mann e al suo “Mario e il mago” il passo è breve quanto obbligato. I morti di Lampedusa non me li potevo risparmiare, ma non me l'ha ordinato il medico di stabilire un'ostinata connessione fra le sciagure del razzismo odierno, le performance del dodicennio nazista e la genesi ingloriosa del nostro ventennio mussoliniano.
Ce n'è abbastanza per sprofondare in uno stato di acida depressione e di sordo risentimento, specie quando operai meridionali vomitano su zingari e stranieri le stesse crudeltà che, solo una cinquantina di anni fa, si leggevano in Piemonte su cartelli ben decisi a non affittare case a meridionali. Non saprei dire meglio di Franco Arminio: “il paese vuole che i suoi abitanti siano militanti dello scoraggiamento col grembiule del rancore addosso”.

La memoria fa brutti scherzi. E' capacissima di cancellare, ingigantire, ripetere e rimpicciolire quando c'è bisogno di rimuovere, assolvere, magnificare o condannare a seconda delle convenienze di chi è alla spietata ricerca di un capro espiatorio.
Ma Améry, che ad Auschwitz ne ha viste di tutti i colori e ne ha scritto solo nel 1966, non accetta consolazioni, giustificazioni, conciliazioni. Non accetta che “il tempo, come dice il buon senso, guarisca le ferite” e parla di colpa collettiva solo come “somma, divenuta oggettivamente manifesta, di comportamenti colpevoli individuali” che trasformano la colpa di ogni singolo tedesco nella “colpa complessiva di un popolo”. E il popolo tedesco ha una sola strada per uscirne: “assumersi la responsabilità di quei dodici anni, al quale del resto non fu lui a mettere fine”. Non chiede vendette, espiazione o “purificazione con mezzi violenti”, ma la rivendicazione limpida che il “dominio dell'infamia” fu “concreta negazione del mondo e di sè” in quanto “patrimonio negativo” della sua storia nazionale e del suo ruolo in Europa e nel mondo.
Améry spiega che l'essenza del nazismo – per chi non vede scongiurato il pericolo di una sua ricomparsa sotto accattivanti e mentite spoglie – è l'annientamento dell'altro al quale si sente superiore. In questo mondo, il nazista si sente straniero e annullare l'altro è l'unica tecnica respiratoria che conosce. E' la sola via per la realizzazione di sè. Alla propria vita arriva con la morte dell'altro e ogni mediazione o regola che rallenta il progresso della sopraffazione virtuosa è un atto di viltà. Dunque, la vita è esercizio della forza. Il suo frutto più maturo ed ammirevole è il rito dello schiacciamento dell'altro. E' la sua umiliazione, accompagnata se possibile dallo spettacolo della sua derisione.
Il nazismo appare al sadico la risposta più convincente al suo bisogno di ribellione e di rivoluzione contro un mondo ostinatamente colpevole di resistere nel riconoscimento del diritto quotidiano alla vita del tuo simile. L'essenza del nazismo è la tortura perchè “l'uomo sussiste solo nell'annientamento dell'altro”. Améry si considera fortunato. Sotto tortura non ha parlato solo perchè effettivamente non sapeva nomi e indirizzi: altrimenti si sarebbe rivelato “il codardo che magari sono e il traditore che potenzialmente già ero”.
Amèry va letto e mi vergogno di averlo fatto tardi. Nel suo “I sommersi e i salvati” del 1986, Primo Levi apre con lui una dialettica aspra e imbarazzante, essendo come lui salvato dal lager, ma poi tragicamente sommerso dalla comune scelta del suicidio: il primo nel 1978, il secondo nel 1987. Per Améry, ad Auschwitz “l'uomo dello spirito era isolato, del tutto abbandonato a se stesso”. Resistevano marxisti militanti e cattolici o Testimoni di Geova, ai quali la fede politica o religiosa forniva la chiave per spalancarsi la porta del futuro in questa terra o nell'al di là (l'Unione Sovietica o il Paradiso). Ma per lui, intellettuale scettico ed illuminista, nessuna pietà, nessuna difesa. Il triviale imperativo di vivere divorava lo spazio di ogni residua umanità e la poesia perdeva il potere di sfidare la realtà. Non era “l'armonia” capace di vincere “di mille secoli il silenzio”.
Per Primo Levi, invece, recitare il canto di Ulisse era una forma di resistenza che permetteva di “ristabilire un legame con il passato” e di salvarlo dall'oblìo. Fortificava e promuoveva la sua identità. Provava che la sua mente non aveva cessato di funzionare. A dispetto degli stenti e delle umiliazioni, la sua dignità giaceva ribelle e luminosa in uno scrigno inviolabile.


Mario Dellacqua

JEAN AMERY, Intellettuale ad Auschwitz, Bollati Boringhieri.

1 commento:

  1. abbiamo combinato un pasticcio a causa dei refusi che si sono prodotti non so come. rimedieremo in settimana. scusate e ciao a tutti. mario

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