giovedì 25 ottobre 2012

Da imprenditore agricolo a precario di stato.

Bruciare valore non conviene a nessuno 
di Mario Ruggieri


Per venire incontro alla sempre maggior richiesta di energia, la nostra società , tenuto conto che il petrolio è un bene limitato e ad alto potere inquinante, utilizza le moderne tecnologie per avere fonti alternative a cui attingere. Il biogas, prodotto dalla fermentazione del mais, seppur con apporti quantitativamente modesti, è una di queste fonti.
L’imprenditore agricolo può decidere la costruzione di un proprio impianto e destinare ad esso una parte residuale della propria produzione di mais. In questo caso, la  logica prevalente è di assicurare la piena autonomia energetica alla propria azienda.
Più imprenditori agricoli possono associarsi e costruire un impianto di grandi dimensioni allo scopo di vendere allo stato l’energia elettrica prodotta. In questo caso l’apporto di mais che dovranno conferire sarà la parte predominante della propria produzione.
Nella cooperativa i soci sostengono un importante sforzo finanziario iniziale per la costruzione dell’impianto ma, in contropartita, ottengono un contratto di vendita dell’energia  allo stato. Tale soluzione  permette loro di non avere problemi di collocamento della produzione di mais e predeterminare il ricavo dalla vendita dell’energia elettrica prodotta. La buona valenza economica dell’operazione risiede negli incentivi statali che prevedono un prezzo dell’energia triplo rispetto a quello di mercato.
In pratica escono dal mercato del mais ed entrano in un’attività industriale  a rischio proprio ma per conto dello stato.
Quali le prospettive e le condizioni del mercato che si abbandona ? 

I  dati evidenziano un incremento del valore del  mais, quasi costante negli ultimi sei anni, fino al raddoppio delle quotazioni. E’ altresì utile, per un corretto esame previsionale, richiamare l’analisi recente della  FAO: “ Nel prossimo decennio i prezzi dei prodotti di base agricoli rimarranno sostenuti, trainati da una domanda forte e stabile ma in presenza di una crescita rallentata della produzione globale. La domanda è motivata da redditi pro-capite più alti, dall'urbanizzazione crescente, dal cambiamento della dieta nei paesi in via di sviluppo e dall'aumento del fabbisogno di materie prime alimentari per l'industria dei combustibili. (Oltre il 40% del mais dei maggiori produttori USA finisce nelle raffinerie di etanolo per diventare biocarburante)
Restringendo il campo al  nostro fabbisogno nazionale di mais, uno studio dell’Istituto Nomisma conferma detta previsione: “ l’utilizzo no food che ne viene fatto fa crescere a 3,4 milioni di tonnellate annue la necessità di doverlo importare dall’estero con un incremento del 233% rispetto alla media import del periodo 2001/2006 “.
In estrema sintesi un mercato commercialmente valido, con solide prospettive a medio e lungo termine, meritorio di una migliore/maggiore permanenza da parte dei suoi operatori. Un mercato che potrebbe generare un grosso paradosso: premiando oltre misura chi ci ha creduto rispetto a chi ha distolto la propria produzione verso “la speculazione” delle  rinnovabili.
Quali possono essere i rischi di mettere alla “diretta dipendenza” dello stato i ricavi della propria attività. Senz’altro il cambiamento di indirizzo politico dettato dalla profonda crisi economica e dalle radicali mutazioni socio/economiche in atto.
Le grandi istituzioni internazionali - dall' Onu, alla Fao, al Fondo monetario, alla Banca mondiale - insistono da mesi perché Usa ed Europa rinuncino agli obiettivi prefissati di produzione di biocarburanti che, in periodi di tensione, alleggeriscono il prezzo del pieno di benzina, ma aggravano lo scontrino del supermercato..
Anche in Italia si è di recente “rimodulato” gli incentivi alla produzione delle rinnovabili, seppur non in maniera drastica come era obiettivo del governo. Hanno pesato le forti resistenze della Confindustria, della Marcegaglia in particolare per un suo interesse diretto.  Per contro,i  nuovi rappresentanti degli industriali,  proprio in questi giorni , hanno chiesto  al governo una politica di sgravi fiscali piuttosto che i contributi a singoli settori.
Nulla vieta quindi, che nell’ottica di spending review, lo stato decida quindi di non più pagare il triplo del suo valore l’energia rinnovabile. A maggior ragione se si considera che tale tipo di produzione non sarà mai autonoma dagli incentivi statali e, nel caso specifico del mais/biogas, ha come effetto collaterale l’aumento del costo di beni alimentari di prima necessità. Le future politiche economiche sembrano inevitabilmente indirizzate a rivalutare il saggio e prudenziale concetto di ottenere, in primis, la maggiore produzione attraverso il minor consumo e, con esso, il rilancio di tutto l’indotto collegato alle ristrutturazioni.
In questo caso chi è entrato nel mercato delle rinnovabili deve sperare che lo stato mantenga gli impegni pregressi. In passato non avremmo avuto dubbi in proposito ma, di recente, e sempre più con l’aggravarsi della crisi, gli effetti retroattivi di talune decisioni hanno messo a dura prova tale radicata convinzione.

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