mercoledì 2 maggio 2012

Don Milani: dalla parte di chi?


Mario con Chiara Ottaviano e Gianpaolo Fissore

Per misurare la distanza siderale che separa la scuola di cinquant’anni fa da quella di oggi è sufficiente la riflessione su un tema, quello dell’ “educazione”, che rimbalza in tutti i dibattiti ogni qualvolta fatti di attualità tirano in ballo le “barbare” o “aliene” giovani generazioni. A chi il compito dell’apparente impossibile “missione educativa” di cui genitori e istituzione scolastica si rinfacciano reciprocamente il fallimento, salvo essere entrambi confortarti dall’onnipresenza “diseducativa” mediale e multimediale (prima il diavolo era la tv, ora è internet)?
Per opposto non troviamo un solo cenno alla parola “educazione” in Lettera a una professoressa (1967), vangelo della più feconda rivoluzione culturale che abbia attraversato la scuola italiana.
Il problema al tempo non si poneva. E non solo perché lassù, a Barbiana, don Lorenzo Milani ai suoi ragazzi aveva sempre qualcosa da “insegnare”senza dover ricorrere a note o sospensioni, ma soprattutto perché l’istituzione scolastica operava in un sistema di valori dove la figura dell’insegnante, quand’anche incapace o mediocre, e sebbene non godesse di un trattamento economico straordinariamente superiore a quello di oggi, beneficiava di una buona dose di autorità e prestigio. Anche troppo. Tant’è che Lettera a una professoressa iniziava proprio con l’invito ai genitori a “organizzarsi”. Per che cosa? Per non essere troppo riverenti e per saper chiedere il conto agli insegnanti e alla scuola italiana, incapaci di assolvere al mandato della Costituzione, cioè di garantire a tutti, anche agli ultimi, il diritto all’istruzione.
I genitori. Coglieva nel segno don Milani, tanto attento alla concretezza della didattica, quanto preciso nell’individuare nella relazione tra scuola e famiglia il rapporto di reciprocità a fondamento della missione educativa. Da cancellare era a quel punto la figura di un padre che ancora si
recava dal maestro “deamicisianemente” con il cappello in mano, a far ammenda per le mancanze del figlio, a riceverne le disposizioni e a rigidamente applicarle.
Ma quale sarebbe oggi la reazione del severissimo priore di Barbiana di fronte a quei genitori che aggrediscono la professoressa, rea di aver sequestrato il cellulare al figlio che ne fa disinvolto uso durante le lezioni o di averne censurato il linguaggio un po’ troppo televisivo? O come commenterebbe l’atteggiamento di quelle giovani insegnanti che si fanno accompagnare
a scuola dagli attempati genitori perché impaurite dal clima che vi si respira intorno?
Casi limite? Sembrerebbe di no. Sono episodi di ordinaria, deprimente routine nelle scuole di frontiera, quelle dove, nella più effervescente stagione della didattica si precipitavano gli insegnanti più bravi, determinati a smontare sul campo gli armamentari della scuola classista, e dove ora i “giovani” insegnanti, con scarse opportunità di scelta e dopo interminabili anticamere da “precari”, approdano già sfiniti. La relazione educativa, ovvero quell’insieme di atteggiamenti, comportamenti, ruoli, strategie e regole condivise all’interno dei quali prendono forma l’insegnare e l’imparare, riflette il clima del tempo. A chi don Milani rivolgerebbe oggi l’invito a organizzarsi per migliorare la relazione educativa? Certamente sempre ai più deboli, che oggi sono forse proprio gli insegnanti.

Regole da condividere
Mai come oggi la convivenza a scuola risulta avere la febbre alta e il termometro per misurarla va applicato soprattutto alla fascia dell’obbligo: dalla primaria alla media, fino al biennio delle superiori. Sono gli anni in cui a scuola ci vanno tutti e in cui la scuola avrebbe il dovere di offrire
a tutti le stesse opportunità, di trattenere e non respingere. E sono anche gli anni in cui non solo i ragazzi, ma soprattutto i genitori, sono chiamati a essere interlocutori privilegiati ogniqualvolta entrano in gioco l’educazione, il comportamento, la definizione delle regole e la loro violazione. I genitori, e quando non ci sono, nei casi più difficili, i servizi sociali.
L’ubiquità e l’onnipotenza del cellulare (il videofonino come arma impropria), gli atti di prepotenza verso le persone e le cose (il bullismo), il fumo (nel senso di canne). Facile stilare una classifica delle questioni all’ordine del giorno nel disordine scolastico. Pleonastico classificare, per valutarne astrattamente l’efficacia, gli strumenti disciplinari in uso, che poi, seppure ammorbiditi, sono a ben vedere sempre gli stessi di una volta. Lascia il tempo che trova il dibattito sul voto di condotta, espresso ancora in decimi nelle scuole superiori e ripristinato nella scuola dell’obbligo dal ministro Letizia Moratti sotto la voce “comportamento”, ma comunque ininfluente per determinare la promozione finale. Il vero problema (anche se può sembrare banale rammentarlo) è che le norme sono tali ed efficaci solo se condivise e riconosciute legittime da tutte le parti in campo. Nelle situazioni più avanzate c’è il “Patto di Istituto”, redatto a inizio anno dal Consiglio di Istituto
(che comprende anche una rappresentanza di genitori) e sottoposto alle famiglie, chiamate a sottoscriverlo, nero su bianco. Il principio è che l’educazione a scuola necessita di patti chiari. Tra insegnanti e studenti. Ma soprattutto tra scuola e famiglia. I genitori giudicano senza sconti la scuola – per assioma oggi in deficit educativo – ma la scuola è il primo luogo dove i genitori sono giudicati rispetto all’assolvimento della loro funzione – e anche la famiglia è per assioma oggi in deficit educativo. E gli insegnanti? Sono proprio tutti impreparati, depressi, in disarmo, refrattari a ogni meccanismo che si proponga di sottoporre a valutazione la loro funzione educativa?

Una figura fondamentale
Nel prete, nel sindacalista e nel maestro don Milani individuava tre figure chiave della società del suo tempo a cui attribuiva straordinari compiti e enormi responsabilità. Senza entrare nel merito del peso attuale delle prime due, quella del maestro, ovvero dell’insegnante, rischia seriamente nel nuovo millennio il declassamento a controfigura. Non è stata una decadenza repentina. Da tempo il corpo docente nella scuola italiana si esercita (o convive) con l’utopia da una parte e la frustrazione dall’altra. Gli insegnanti, di ogni ordine e grado, vivono una crisi di ruolo, che viene da lontano e rispetto alla quale hanno essi stessi non poche responsabilità. Ma per dare a ciascuno il suo oggi la parte del leone nella liquidazione della scuola pubblica la stanno facendo i governanti.
Don Milani, quando giudicava l’istituzione scuola del suo tempo, usava il metro della concretezza: dava i numeri, nel senso più letterale del termine, per denunciarne i meccanismi di selezione classista, in stridente contrasto con i dettami della Costituzione.
Oggi sempre di più, tra i tanti numeri che non quadrano, ci sono quelli che riguardano gli insegnanti. Quanti sono i tagli delle cattedre? Quanti sono i precari? Quanti sono i giovani nuovi insegnanti a cui dovrebbe essere affidata l’opportunità di aggiornare la didattica e di instaurare una più feconda relazione educativa con le più giovani generazioni? Quanto si investe su di loro, sulle loro aspettative e sulla loro formazione? Quanto guadagnano?
I genitori italiani del nuovo millennio non si presentano più con “il cappello in mano”, ma non sembrano neanche in grado di pretendere, in quanto cittadini, che la scuola non abdichi alle sue funzioni didattiche ed educative, dimenticando o emarginando le risorse umane. Decisivo sarà che i “maestri”, forse lasciati troppo soli, non si consegnino a quella strisciante rassegnazione che per molti rischia di rendere sempre più evanescente l’originaria missione educativa. Forse è necessario, insieme alla rivendicazione sindacale, un po’ di orgoglio professionale: come direbbe don Milani, la figura dell’insegnante è fondamentale, e oggi non meno di ieri.
Gianpaolo Fissore

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