giovedì 29 ottobre 2009

Mio papà

segue il discorso d'apertura di Fernanda.


Buona sera a tutti, benvenuti e grazie per essere qui. Che emozione!

Una delle ultime cose che mio padre mi ha detto, qualche giorno prima di morire era che se ne andava sereno e tranquillo perché, facendo un bilancio, la sua, in fondo, era stata una buona vita, aveva dato e ricevuto molto, aveva fatto un sacco di esperienze, aveva visto un sacco di posti e paesi, aveva conosciuto un sacco di persone con cui aveva condiviso anche grandi momenti.

Anche in fin di vita mi diceva che la vita è meravigliosa che ogni giorno vale la pena di essere vissuto, anche quelli dolorosi, quelli sbagliati, quelli che sembrano essere inutili. Anche quelli dove la sofferenza ti spezza e ti sembra che non riuscirai mai più a sorridere. Non è vero si torna a sorridere.

Mio padre arrivò a Torino nel ’55, aveva 18 anni. La guerra l’ha vissuta da bambino: il ricordo più forte era quello di aver mangiato polenta e fave a colazione, pranzo e cena.

Mio nonno avrebbe voluto che studiasse, era l’ultimo di 4 figli: zio Bilo lo chiamava mia cugina Maria Luisa, all’epoca bimba piccola .

Però tutta ‘sta voglia di studiare non c’era e così mollò la scuola al 4^ anno di perito meccanico e venne in Piemonte.

Mio nonno, ex-carabiniere, gli preparò un biglietto di “raccomandazione” con il nome e cognome di un “questurino” suo amico, in servizio a Torino: peccato che mio padre, una volta arrivato a Porta Nuova, il biglietto non ce l’aveva più, non sapeva se l’avesse perso, se l’avesse dimenticato. Insomma non sapendo cosa fare, decise di presentarsi alla sede della questura di Torino e fare il nome dell’amico: il suddetto era fuori per servizio e dovette aspettarlo per tutto il giorno in questura. “Arrivato a Torino sono subito finito in questura” amava ironizzare.

A quel tempo era facile trovare lavoro e dopo alcune vicissitudini anche a carattere imprenditoriale (non era proprio il suo mestiere: il suo cimento da “padrone” si risolse con un pignoramento dello stipendio e dei mobili), trovò la OSI, ditta di stampaggi industriali, dove lavorò fino alla pensione. Questo lavoro gli permise di viaggiare molto e come si vede dalle foto di entrare in contatto con le persone e le usanze dei luoghi in cui soggiornava. A volte capitava il contrario, cioè che qualche straniero venisse a Torino.

Mi ricordo di due ingegneri polacchi che vennero qualche volta a cena da noi e mia nonna cucinò loro la minestra quadrata (gli agnolotti), delizia che i loro palati, ricordarono per lungo tempo. Qualche anno più tardi fu la volta di Bagga, ingegnere indiano, a cui mia madre fece assaggiare la bagna cauda: anche per lui questa fu un’esperienza indimenticabile, ma nell’altro senso.

Mia madre, sua moglie, la donna della sua vita.

Si conobbero nella primavera del ’61, qui a None. All’epoca in via Massimo d’Azeglio c’era una specie di “sala da ballo” con il juke box. La gestiva Novarino.

Quando da bambina chiedevo ai miei genitori cosa li avesse fatti innamorare uno dell’altra: mia madre mi diceva “papà era alto e parlava italiano” e mio padre, prosaico, “tua madre aveva due gran belle tette”.

14 mesi dopo si sposarono: all’epoca per il nostro paese fu uno scandalo. Gli amici d’la sucetà di mio nonno gli chiedevano “ti griglio, tlas daie tua fia ann napuli?

Figuriamoci quando si venne a sapere che oltre che “napuli” era anche comunista. Eh si perché non ci impiegò molto a cominciare a frequentare la sezione del PCI di via Stazione.

Mio padre faceva coincidere il suo impegno politico attivo con la sua elezione negli organi collegiali della scuola elementare come genitore. Cadeva l’anno 1974.

Ma il “comunismo” in casa nostra lo si respirava già da qualche tempo prima.

Mio padre, oltre a portarmi a vedere “gli Aristogatti” e “la carica dei 101”, mi portava anche ai comizi a Torino, ai funerali dei morti per strage, ai Festival dell’Unità.

Mi ricordo un comizio in Piazza San Carlo a Torino dove avrebbe parlato Enrico Berlinguer. Mia madre era terrorizzata dalla possibilità (non così remota all’epoca) che potesse scoppiare una bomba. Si raccomandava con me di non stare vicino ai cestini della spazzatura “è lì che buttano le bombe e stai lontano da quelli con l’eskimo e il passamontagna”. Peccato che il 90% degli partecipanti ai comizi avessero l’eskimo e il passamontagna.

Uno di essi frequentava sovente casa mia: era un pischello ventenne con una seicento color sabbia, di cui io ero terrorizzata, “ma questo qui metterà davvero le bombe?”, mi chiedevo. Pensate che qualche anno dopo, poi mi ha addirittura sposata, nel senso che ha celebrato il mio matrimonio con GianLuigi, il qui presente Nello Petrossi.

Nel ‘76 i comunisti nonesi organizzarono il primo festival dell’Unità locale: fu un disastro. Piovve per tre giorni ininterrottamente, non venne praticamente nessuno e i compagni dovettero autotassarsi per rientrare delle spese. Questa fu una delle volte in cui vidi mia madre veramente incazzata, pardon inalberata con lui.

Negli anni a venire andò sempre meglio, il tempo ci sorrise, i nonesi iniziarono ad apprezzare le costine e il pesto di Liliana e i miei genitori non litigarono più, come si evince dalla foto.

Quando un genitore se ne va, gli eredi si spartiscono l’eredità: io sono figlia unica, non ho dovuto litigare con nessuno. A parte i mega milioni di euro che mi ha lasciato, che tengo solo per me, vorrei però condividere con voi tutti, grazie a questa serata, un’eredità altra che mi ha lasciato mio padre.

Per prima cosa mi ha trasmesso una grande passione per il cinema: da ragazzina, è vero mi portava ai comizi ma anche al cinema: non abbiamo mai smesso di condividere questi momenti. Con lui ho visto film come Novecento, Il Cacciatore, Taxi driver e anche il film che ha sicuramente influito moltissimo sulle mie scelte professionali: “Qualcuno volò sul nido del cuculo”. Avevo 11 anni, non quanto capii realmente sul significato del film ma mi innamorai di quel pazzo di Jack Nicholson e in quel momento decisi che, in un modo o nell’altro avrei lavorato in psichiatria.

Anche l’ultima cosa “normale “ che abbiamo fatto insieme è legata al cinema: l’11 aprile 2008 siamo andati a vedere “Il cacciatore di aquiloni”.

Inoltre sono davvero felice perché mio padre è riuscito a trasmettere questa passione anche a suo nipote Benedetto: la domenica sera c’era un tacito accordo tra loro. Andavano al cinema Eden a vedersi il film in programmazione.

Ma l’eredità più grande, e qui un po’ di retorica me la dovete concedere è la sua passione per tutto ciò che è vita: ho sempre invidiato mio padre per la sua capacità di trovare del buono in tutte le persone e in tutte le cose. Mi diceva che tutti hanno diritto ad un’altra possibilità e che le persone non nascono cattive ma lo possono diventare a causa delle sofferenze a cui la vita li aveva sottoposti.

Mio padre aveva una fiducia illimitata nell’uomo, in tutti gli uomini: mi diceva che ogni uomo ha diritto di essere ascoltato, accolto e capito senza pregiudizi di sorta.

Uno degli ultimi discorsi sulla “vita nonese” riguardava i nostri giovani della Pro Loco: mi diceva che era fiero di loro, li guardava “crescere” con fiducia e condivideva il loro impegno.

Io faccio una fatica bestia e non riesco ad essere così: i preconcetti sovente incidono profondamente sulle mie decisioni e sulle mie scelte, ma devo dire che ci provo, ci metto tutta la mia buona volontà, ma ho da mangiarne di pagnotte per arrivare a essere simile a lui.

Come ho detto all’inizio mio padre amava la vita in modo incondizionato ed è vero ci ha lasciati serenamente e ha fatto di tutto perché mia madre ed io accettassimo la sua scomparsa nel modo più sereno possibile.

Ma un paio di giorni prima di andarsene mi ha anche detto “stai tranquilla, io sono tranquillo, anche se morire mi fa un po’ girare le balle”.

Eh beh, non so a voi, ma anche a me girano parecchio le balle che se ne sia andato.

Grazie.


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