lunedì 20 luglio 2009

LA TENTAZIONE EUCARISTICA

Quando con fatica si conquista la gratificazione di una carica pubblica, le critiche che ricevi ti sembrano segnate dal pregiudizio, dall’ingiustizia, dalle strumentalizzazioni o dall’ingratitudine. Hai appena gustato l’incomparabile gratificazione di sentirti salutato dalla reverenza degli sconosciuti, ed è forte la tentazione di non abbassarsi a rispondere alla pari. Daresti troppa soddisfazione ai tuoi critici che si sentirebbero legittimati e rafforzati. E’ forte il rischio, secondo me, di cadere vittime di una concezione eucaristica della politica: dove arrivo io finisce l’incompetenza, il menefreghismo di prima e la sordità del potere di sempre e comincia una buona volta la stagione del disinteresse, del bene comune per il paese, della disponibilità all’ascolto e addirittura della politica come servizio reso ai cittadini.

Beninteso: lo stesso fenomeno colpisce chi dalle responsabilità pubbliche viene allontanato o perché sconfitto, o perché messo in minoranza dall’anagrafe, dalla legge, dalla dialettica interna. La tentazione eucaristica anche in questo caso è forte e si presenta con i colori della nostalgia: eravamo più generosi, più competenti, più affiatati, più leali, più disinteressati ecc.

Chi scrive ha visto la sua persona attraversata da tutte le condizioni appena indicate. Il narcisismo è una malattia che investe i manager e gli uomini di spettacolo. Non da meno, i politici sanno trovare alleanza in argomentazioni apparentemente convincenti, accompagnate da richiami palesi o occulti ai doveri della fedeltà e dell’appartenenza: attenti a non attaccare il governo amico con critiche eccessive, attenti a non fornire all’avversario comune vantaggi gratuiti e immeritati. Chi è fuori dal palazzo può accogliere positivamente queste richieste solo scegliendo tra l’applauso e il silenzio. Ma, come dice il subcomandante Marcos, “un popolo che non vigila sui suoi governanti è condannato ad essere schiavo e noi combattiamo per essere liberi”. Poichè noi non vogliamo tifosi né clienti, ma cittadini consapevoli e partecipi, vorrei sfuggire a questa tenaglia.

E se le critiche di chi sta all’opposizione verso chi governa, come quelle di chi governa verso chi sta all’opposizione fossero come un termometro che misura la vitalità della democrazia? E se le critiche venissero “ridotte” ai loro contenuti e depurate dal carico di risentimenti e rivalità che pure sono il corredo fisiologico della lotta politica? E se riconoscessimo nella dialettica politica una risorsa per il nostro perenne romanzo di formazione percorrendo il quale proviamo a cambiare gli altri accettando di vedere che anche noi cambiamo e siamo cambiati? E se considerassimo un dovere il diritto di partecipare alla vita politica correndo in pubblico il rischio dell’errore, del ripensamento, del contrasto con l’amico? Piero Gobetti diceva che a un popolo di dannunziani non si può chiedere il sacrificio della lotta politica…

Non sono sicuro che queste domande non interessino l’aspro dibattito in corso. Ho dei dubbi. Forse lo riguardano molto.

P.S. Spezzo una lancia a favore del blog. E’ vero che a quattr’occhi ci si può dire tutto guardandosi negli occhi. Ma non stiamo discutendo di faccende private che pure hanno il loro peso. Per scritto si è obbligati a privilegiare argomenti pubblicamente spendibili e soppesabili e si è sospinti a moderare la componente personalistica.

Mario Dellacqua

2 commenti:

  1. "Nel 1964 Nenni aveva battezzato l'entrata nel governo del partito socialista in modo disarmante: 'Siamo entrati nella stanza dei bottoni'. A pensarci bene quella banalità non era specifica dei socialisti, apparteneva a tutta la sinistra. I comunisti la praticavano intensamente: era la cultura eucaristica della trasnustanziazione, la propria presenza, il tocco della propria mano cambiava la natura della politica".
    V. FOA, Questo Novecento, p.279.

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  2. Forse non è vero che chi è fuori del palazzo può scegliere solo tra appalusi e silenzio. C'è una terza via.
    "Un giorno, durante una riunione del Comitato centrale, la sinistra decise di presentare una sua mozione, che fu scritta da Tullio Vecchietti. Io ero entrato a far parte della corrente e proposi che per correttezza il documento fosse dato da leggere a Nenni, che era il segretario. Vecchietti andò e non tornava più indietro. Passa una mezz'ora e non torna, passa un'ora e noi ci chiediamo: cosa succede, ci vuole tanto a lasciare un foglio di carta? Finalmente Vecchietti ricompare, un po' turbato, e dice: Nenni ha voluto riscrivere lui la nostra mozione.

    V. FOA, Il Cavallo e la Torre, Einaudi, p.207.

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